Antichi dolci Galateo e rinascimento
Antichi dolci di casa – storie e delizie della pasticceria casalinga
II Quattrocento e soprattutto il Cinquecento vedono il fiorire della cucina colta e raffinata, che lascia la sua impronta anche su quella borghese. Così come per le arti e la moda, anche in campo gastronomico e culinario l’Italia diventa punto di riferimento per tutto il mondo civile. Con la diffusione della scrittura e della lettura, la tradizione orale si trasforma nei primi documenti di ricette scritte, ancora aggrovigliate e imprecise, ma che, attraverso la ricerca, la critica, la sperimentazione di appassionati gastrologi, saranno interpretate in epoche successive.
Ad – articolo da ANTICHI DOLCI DI CASA Silvia Tocco Bonetti – Altre opere di questa Scrittrice sono reperibili presso >>> –In questo periodo gli italiani danno all’Europa, oltre alla raffinatezza dei modi e alle regole del comportamento codificate ne il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, anche l’invenzione della confetteria e della gelateria. La predilezione per il sapore dolce si impone: sono ancora dolci compatti, di impasto denso tipo marzapane, a prevalere. I ricettati del nostro Rinascimento –il Platina, lo Scappi, il Messisbugo — presentano molte ricette di mostaccioli e altri piccoli dolcetti che daranno luogo poi ai petits fours e alle stupefacenti virtù imitative dei cosiddetti “frutti di pasta reale”, specialità siciliana a base di pasta di mandorle, modellati e poi colorati “perché si confondano con quelli veri”.
Fa eccezione la ricetta dei Cinquanta pani di latte e zuccaro di nove once l’uno, indicata da Cristoforo da Messisbugo, che ricopriva la carica di maestro di casa del cardinale Ippolito d’Este a Ferrara (era quell’alto prelato, gaudente e un po’ meschino, cui Ludovico Ariosto fece da segretario). Massimo Alberini riporta la ricetta, che vedeva 35 libbre di farina, 6 di zucchero, 3 d’acqua di rose, 6 dcl di latte fresco e ben 75 tuorli d’uovo! Si aggiunge ‘ ‘levatura’ ‘ in quantità non precisata e si fa una pasta non troppo dura né troppo tenera, dalla quale si ricavano dei “pani belli a farli tondi o in torti”, che vanno lasciati lievitare prima della cottura.
Nelle Maccaronee, l’opera anticonformista e gustosissima in latino maccheronico del poeta mantovano Merlin Cocai, si legge di “… nevale” (pasta sottile di farina e acqua, cotta tra due lamiere calde), che si confezionava in Toscana; di “piadoni” (ravioli di pasta con ripieno dolce) a Erescia; di “strufola” (pasticcio dolce) a Roma; di “tortelli dolci” a Genova; di “offelle” (biscotti oblunghi, ancora oggi ricercatissimi) a Milano. Il nome deriva curiosamente da offa, una pasta che gli indovini latini gettavano ai polli sacri per interpretare il volere degli dei.
Una scena delle Maccaronee, da una tavola dell’edizione del 1521.
Per profumare e inzuppare questi dolci si usavano sciroppi di anice, di fiori d’arancio, di petali di rosa, di ratafià di frutta.
La cucina era divisa in una prima parte principale dove erano sistemati il focolare, i fornelli, i mortai, le madie e i tavoli eleganti, le piattiere con le ceramiche, i cristalli, i peltri. In un’altra, con credenze, scaffali, forni e fornelli, si lavoravano solo i dolci per non confondere gli odori. V’era poi un piccolo cortile dove si pulivano i pesci e gli animali e una cantina per conservare condimenti, creme, gelati.
Una nebbia dolce e fruttata
L’invenzione del gelato, che si diffuse ben presto ottenendo grande successo, sembra sia da attribuire al toscano Bernardo Buontalenti.
Quando, nel 1533, Caterina de’ Medici andò sposa a Enrico II di Francia, partì da Firenze con una corte composta, oltre che di profumieri, parrucchieri ed altri importantissimi personaggi, da cuochi, pasticceri e gelatai che, trapiantati in Francia, diedero inizio alla nuova e moderna cucina, allora come oggi definita nouvelle cuisine. I gastrosofi francesi discutono animatamente sugli apporti italiani alla loro gastronomia che, come tutti sanno, doveva poi diventare la più ricca e raffinata del mondo.
Uno di loro, Revel, riconosce con serena chiarezza che gli italiani sono stati innovatori radicali almeno nel campo delle leccornie: marmellate, paste di frutta, architetture di zucchero. La frutta candita, la confetteria, il torrone, la piccola pasticceria sono dunque gli apporti veramente nuovi del Rinascimento in campo gastronomico.
“Chinandovi sulle casseruole del Cinquecento” scrive Revel “annusate una nebbia dolce e fruttata di zucchero cotto e di succo di pera o di ribes che stanno bollendo”. E con questo aroma ci avviciniamo a un’altra squisitezza fondamentale nella storia dolciaria, che ci viene incontro inebriante…
il nettare bruno del Nuovo Mondo
Ingrediente rivoluzionario, il cacao fece il suo ingresso in Europa a seguito dei grandi viaggi e della conquista del Nuovo Mondo. I messicani lo usavano macinato e sciolto in acqua: la bevanda era detta quarchabualt ed era riservata a re, nobili e cortigiani, per il suo squisito sapore e il suo altissimo potere energetico. Sbarcato in Spagna con gli uomini di Cortes che tornavano carichi di oro e di nuovi prodotti, il cacao da noi ebbe il suo battesimo a Torino per merito di Emanuele Filiberto di Savoia, dopo la battaglia di San Quintino, nel 1557.
I Conquistadores, abbagliati soprattutto dalle immense ricchezze rapinate nel Nuovo Mondo, non avevano messo subito a frutto altri tesori portati in patria e il cacao fu ‘ ‘scoperto’ ‘ a poco a poco; per tutto il Seicento scienziati e ghiottoni disquisirono su proprietà, uso e “pericoli” di questa bevanda, che tuttavia trionfò decisamente nel secolo seguente, soprattutto a Parigi e, da noi, in Piemonte.
La cioccolata in tazza sarà così il vellutato, squisito energetico che trepide madri faranno sorbire senza fatica a rampolli anemici e palliducci e che colorirà e profumerà torte e “bunett” per poi entrare gloriosamente in migliaia di specialità dolciarie. La cioccolata in tavolette e i cioccolatini verranno dopo, invenzioni dell’ultimo secolo.
Questa carrellata nei secoli alla ricerca del dolce in cucina e a tavola resta tuttavia un po’ estranea, come si vede, a ciò che avveniva fra le mura delle case borghesi, per non dire del popolino, dove lo spettro della fame aleggiava molto spesso e dove anche il pane era un lusso, figuriamoci le nostre dolcezze!
Non sappiamo dunque cosa accadeva nella cucina di una famiglia qualunque; dobbiamo continuare a cercare di mettere insieme le notizie ufficiali che corti e grandi famiglie lasciarono dei loro banchetti e della loro civiltà della tavola, pensando che certamente qualche eco, qualche briciola sia arrivata anche a più modesti deschi.
L’arte di fare pasticci
Mentre a Mantova il cuoco dei Gonzaga, Bartolomeo Stefani, scriveva L’arte del ben cucinare trasferendo sulle pagine la sua abile esperienza, il letterato di Fano Vincenzo Nolfi divulgava un libro didattico, la Ginipendia, avvertimenti civili per una donna civile (1631), nel quale suggeriva alle gentili lettrici di servirsi a tavola delle posate e non delle mani e di tenere il viso eretto nel portare il cibo alla bocca, anziché animalescamente la bocca al cibo affondando il viso nel piatto.
A Venezia e dintorni, nelle ville affrescate dal Tiepolo, incastonate come gemme di architettura tra corsi d’acqua, alberi fronzuti e giardini all’italiana, per pranzare era di moda servirsi di ben tre stanze: in una si consumavano zuppe, minestre e bolliti; in un’altra arrosti, carni e pesci; nella terza dolci, frutta, gelati. La cucina dal grande camino scoppiettante era arredata con molti utensili di latta e ferro battuto e con piccoli fornelli portatili per cotture delicate. Nelle grandi famiglie intanto fa la sua comparsa un personaggio di tutto rispetto, il pasticcere, il cui compito delicato era di confezionare “pasticci” ‘, cioè timballi di pasta, dolci oppure salati (da qui il nome di pasticceria).
La sontuosità e il lusso della nobiltà si propagano anche alla borghesia, ma nonostante e al di là della cucina dotta, che si esprime nei pranzi di nozze e di gala e nelle occasioni “diplomatiche” della politica fra signori, si intravede finalmente quella popolare, con i suoi silenziosi segreti, i dolci semplici tramandati di madre in figlia, che poi qualche cuoco artista riprende, rielabora e trasforma.
Il fornello a più fuochi
II Settecento porta a compimento e mette in pratica le idee lasciate irrealizzate dal suo predecessore. A Napoli nasce o arriva il babà al rum, dolce comunque partenopeo, ma forse importato dai francesi di Napoleone, e considerato un’invenzione del re buongustaio polacco Stanislao Leszczynski durante il suo esilio a Parigi presso il suocero Luigi XV. Si narra che questo re imbevesse con il rum (liquore peraltro già conosciuto ai tempi dei Crociati) dei dolcetti molto soffici e che li chiamasse Ali Babà, nome del furbone della favola antica; con il trascorrere del tempo sono arrivati fino a noi con il solo nome di “babà”.
Anche per i gelati e per i sorbetti inizia la generalizzazione; l’egalité, se non la liberté e la fraternitè, entra anche nelle cucine non strettamente blasonate. Nasce il grande fornello rivoluzionario con più focòlari, che permette una diversa intensità dei fuochi e quindi varie sequenze di lavoro. Qui regna il capocuoco, aiutato dal rosticcere e dal pasticcere, che governa il forno.
E la padrona di casa crea una simbiosi tra le cucine del professionista e dell’amatore, tradizionale e nuova, contadina e borghese. Tuttavia, se nelle grandi famiglie operava il cuoco, che inventava e sperimentava secondo i canoni più avanzati della gastronomia e manteneva segretissime le sue opere (nonostante gli occhi ladreschi e i sorrisi accattivanti della padrona di casa), nelle famiglie borghesi imperava la cuoca, di tradizione più semplice, ma non di minore abilità.
Ad – articolo da ANTICHI DOLCI DI CASA Silvia Tocco Bonetti – Altre opere di questa Scrittrice sono reperibili presso >>> –