Verdure per una cucina sana e semplice
Verdure «povere» per una cucina semplice e grande
Paese eminentemente agricolo, con una profonda vocazione alla orticultura, soprattutto lungo le coste, l’Italia si presenta a una ricerca sull’uso di determinati prodotti, con un panorama curiosamente diverso a seconda che si guardi il versante occidentale della penisola, o quello orientale.
La fascia di produzione e di consumo delle melanzane, per esempio, abbraccia tutta l’area tirrenica praticamente senza interruzione dal confine francese di Ventimiglia alla Sicilia, percorre tutta la costa jonica e risale lungo l’Adriatico arrestandosi però in Puglia. Poco o nulla si ha nelle altre regioni costiere e, soprattutto, in quelle settentrionali dove clima e caratteristiche ambientali impediscono o rendono più difficile la coltura di questa solanacea tipicamente mediterranea.
Allo stesso modo, ma con una discontinuità ancora maggiore, troviamo nell’alimentazione popolare tracce di vegetali diversi da quelli generalmente reperibili su tutti i mercati, dalle cime di rapa alla cicoria e così via. Prima regione in cui la melanzana ha un consolidato diritto di cittadinanza è la Liguria. Negli orti delle due riviere, a levante e a ponente di Genova, si coltivano melanzane piccole e oblunghe, dalla polpa particolarmente tenera.
La cucina genovese le propone in due maniere: ripiene o, appunto, alla genovese. Nel primo caso vengono tagliate a metà nel senso della lunghezza, scavate e quindi riempite con una farcia composta dalla polpa stessa mescolata a funghi secchi ammollati, mollica di pane, uova, parmigiano, latte, aglio. Finiscono poi in forno fino a completa cottura. Nel secondo caso cuociono, tagliate a fette, in umido con olio e cipolla, salsa di pomodori e, al finale, un’aggiunta di uova sbattute.
Qualcosa di simile si ritrova in Toscana dove, però, le melanzane vengono impiegate nella preparazione di un particolare tortino: tagliate a fette, infarinate e fritte in molto olio, sono sistemate in una pirofila e coperte con uova sbattute insieme a maggiorana e prezzemolo tritato. Il recipiente passa poi in forno dove il tutto si rassoda e viene mandato in tavola e servito a fette. Con il nome di tortino di melanzane alla fiorentina, questo piatto ha una diffusione regionale abbastanza uniforme anche se, man mano che ci si avvicina al confine meridionale con il Lazio, va rarefacendosi.
Si tratta, comunque, di un piatto prevalentemente casalingo che va espressamente richiesto, e con adeguato anticipo, in un ristorante. In Lazio ricompare l’uso di acconciare le melanzane con un ripieno, ma la ricetta differisce da quella ligure in alcuni ingredienti il cui impiego è diretta, espressione delle tradizioni alimentari e di lavoro agricolo della zona. Le melanzane vengono tagliate a metà per il lungo e scavate, ma la polpa viene semplicemente mescolata a dadini minuti di mozzarella e insaporita con sale, pepe e olio. Così farcite le melanzane vengono disposte in una teglia unta d’olio, decorate in superficie con una minima quantità di salsa di pomodoro e passate a gratinare al forno.
Fino a questo punto si è registrata in ciascuna regione una presenza costante di limitate preparazioni a base di melanzane: il loro trionfo vero e proprio comincia in Campania per proseguire in crescendo fino alla Sicilia. Scopriamo, per prima cosa, che la tanto celebre parmigiana di melanzane — che moltissimi considerano, nonostante il nome, siciliana — è invece napoletana a tutti gli effetti.
Il piatto è ormai universale, forse uno dei più comuni assimilati dalla cucina nazionale: a Napoli e in Campania lo si trova preparato in tutti i ristoranti. Può essere antipasto o contorno o, addirittura, pietanza. Si friggono le melanzane a fette e si dispongono a strati in una teglia unta d’olio con salsa di pomodoro, parmigiano, fette di mozzarella, fette di uova sode continuando a alternare gli strati fino a esaurimento degli ingredienti. Lo strato superiore dev’essere di pomodoro e parmigiano perché in forno arrivi a formare una crosticina uniforme. In Sicilia il piatto è quasi identico, ma non contempla l’impiego di uova sode.
Molte altre ricette partenopee onorano le melanzane. C’è la cianfotta, che ricorda per certi versi la caponata siciliana di cui ci occuperemo più avanti, e che vede melanzane, patate, zucchini e peperoni, tutti tagliati a dadini, cuocere in un fondo di olio, cipolle, sedano, basilico e pomodori.
Ci sono le melanzane «a funghetto», pure tagliate a dadi, cotte in olio prima, poi rifinite con conserva di pomodoro, capperi, prezzemolo e aglio; le melanzane alla napoletana, curioso e saporito piatto composto da fette dell’ortaggio dapprima fritte in olio, poi unite a sandwich con una fettina di caciocavallo, in una pirofila, con salsa di pomodoro e parmigiano per l’ultima cottura in forno; un altro piatto analogo, per la conclusione in forno, sono le cosiddette melanzane a mannello,, tagliate a striscioline, fritte, messe in pirofila con aglio, origano e aceto.
Fin qui il principio di cottura è unico, la frittura nell’olio è il metodo principale di preparazione. Le melanzane a scapece, altro classico napoletano, sono invece bollite, a fette, in semplice acqua salata e poi servite, fredde, coperte con una salsa a base di acciughe, aglio, prezzemolo, peperoncino e origano.
A unire idealmente, almeno con il nome, Campania, Basilicata e Calabria è la cianfotta appena descritta. In Basilicata diventa ciammotta e si compone di melanzane, però a fette anziché a dadini, fritte insieme con patate e peperoni (mancano gli zucchini) con una conclusione in umido, in tegame, con pomo-dori e aglio. A differenza da queste due consorelle la calabrese ciambotta (le differenze nei nomi sono minime) viene fatta senza la preventiva frittura. Messe a crudo in un tegame, le fette di melanzana cuociono a calore moderato in un fondo di olio e cipolla insieme con sedano e olive verdi.
Ritorniamo per un momento in Basilicata dove una semplicissima e delicata ricetta prescrive di tagliare le melanzane a metà, inciderne la polpa a reticolato e metterle in pirofila coperte con una farcia composta da olive, prezzemolo, aglio, capperi, acciughe, origano e mollica di pane. La cottura avviene in forno con molto olio, e il risultato è esaltante oltreché inaspettato per le sorprendenti sfumature dei sapori.
In Calabria vanno assaggiate almeno tre diverse preparazioni, tutte interessanti e sostanzialmente uniche nel panorama di cui ci si sta occupando. Le melanzane al pomodoro, tagliate a dadi e fritte nell’olio, vengono rimesse al fuoco con salsa di pomodoro e nel finale, come già si è visto per quelle alla genovese, ricevono uova sbattute e pecorino grattugiato.
Le melanzane in insalata sono invece semplicemente bollite e condite con olio, aceto, aglio e menta mentre quelle ripiene sono, curiosamente, molto simili alla parmigiana: affettate, infarinate e fritte vengono completate al forno in una teglia a strati con sugo di pomodoro, mozzarella e olive.
Sempre calabre le uniche due ricette per la conservazione in vasi di vetro o di coccio smaltato. Sott’olio, con peperoncino rosso, origano e aceto, dopo una preventiva salamoia di ventiquattr’ore; sotto sale, previa sbollentatura, con aglio, semi di finocchio e peperoni.
In Sicilia, il ventaglio di ricette si allarga notevolmente. A parte le celeberrime caponata e caponatina già descritte nella prima parte di questo capitolo, esiste una vera e propria civiltà gastronomica della melanzana che ha portato all’elaborazione di piatti di grande prestigio. Il primo che merita citazione è rappresentato dagli spaghetti «alla Norma», diventati un classico dei più accreditati ristoranti di Catania, che vengono conditi semplicemente con un saporito sugo di pomodori freschi, coperti con fette di melanzane infarinate e fritte, a loro volta spolverizzate con ricotta salata. Sugli spaghetti a Catania, sul riso a Palermo. Nel capoluogo dell’isola infatti si usa preparare un risotto con un fondo di olio e cipolla e con buon brodo. Si dispone poi in una pirofila, a strati, con fettine di melanzane infarinate e fritte, caciocavallo e sugo di pomodoro per la gratinatura finale prima di andare in tavola.
Se la parmigiana, come abbiamo visto, è napoletana, nondimeno i siciliani hanno messo a punto da secoli almeno due piatti che le tengono testa validamente, le melanzane ai quattro formaggi e quelle alla siciliana. Le prime sono tagliate a fette sottili, dorate in olio e aglio, tirate a prima cottura con salsa di pomodoro, poi messe in una pirofila a strati alternati con fettine di mozzarella, parmigiano grattugiato, .provola e, per finire, groviera. Le seconde, ugualmente affettate e fritte (in questo caso oltre alla farina c’è anche un passaggio nell’uovo sbattuto) vengono disposte a strati con fette di mozzarella, origano e salsa di pomodoro.
I due piatti completano la cottura in forno, ovviamente, e sono considerati due capisaldi della gastronomia siciliana, la quale peraltro non si limita a questo e offre variazioni tutte interessanti, dalle melanzane a scabece a quelle imbottite con caciocavallo, acciughe e capperi per finire a quelle semplicemente cucinate sulla graticola insieme con peperoni e pomodori a fette: le tre verdure vengono servite calde e irrorate con profumato olio d’oliva.
Il discorso prosegue lungo le coste italiane (ma c’è anche in Sardegna un piatto semplicissimo di melanzane tagliate a metà e cucinate in teglia coperte con un trito di prezzemolo, aglio, basilico e pomodoro), doppia la punta di Reggio Calabria, percorre tutto lo Jonio e risale lungo l’Adriatico.
Importantissima, per tutti gli appassionati di cucina a base di vegetali, la Puglia, che offre ortaggi fra i migliori dell’intero Mediterraneo. Vi sono tre ricette di melanzane, al forno, ripiene e alla parmigiana. Le prime sono tagliate a metà orizzontalmente e svuotate: la polpa viene mescolata con pecorino, mollica di pane, olive nere; il tutto va messo a rosolare in olio e ritorna a riempire le melanzane in compagnia di capperi e prezzemolo per la cottura finale in forno.
Al contrario di queste, le seconde sono tagliate a calotta, scavate, la polpa è semplicemente mescolata con pane e salsa di pomodoro, la melanzana viene ricomposta e messa a cuocere in tegame con olio e pomodorini da salsa. Più curiosa e attraente la parmigiana pugliese: fettine di melanzana infarinate e fritte, ricoperte con una pastella realizzata con parmigiano, prezzemolo, aglio, mollica e uova. Le fette vengono arrotolate e gli involtini così ottenuti disposti in tortiera, coperti di salsa di pomodoro e parmigiano e passati al forno. Servita fredda, generalmente come antipasto, questa preparazione è senza dubbio uno dei manicaretti vegetali più eleganti e saporiti di tutta la cucina italiana.
Queste’ tre ricette pugliesi concludono la rassegna dell’utilizzazione della melanzana nella tradizione regionale italiana ma con la Puglia si apre il discorso, altrettanto interessante e ampio, su alcune verdure che potremmo definire «diverse» nel senso che appaiono con minore frequenza sulla tavola nazionale e che sono legate a alcuni aspetti di tipicità prettamente locale.
Esclusivamente in Puglia, per esempio, si mantiene viva l’usanza di preparare in varie maniere i lampascioni o lampastiuoli, piccoli cipollotti col ciuffo, molto gustosi, gradevolmente amarognoli e, sembra, addirittura benefìci sotto il profilo dietetico. Si preparano al forno, semplicemente irrorati con olio, sale e pepe, oppure prima bolliti, poi infarinati e fritti, o — ancora — semplicemente bolliti e conditi con olio e aceto. C’è, infine, una preparazione leggermente più complessa: tagliati a fettine sottili vengono bolliti, scolati e dorati in padella con olio, infine tirati a cottura definitiva con salsa di pomodoro. A fine cottura vi si aggiungono uova sbattute e si mescola il tutto prima di mandare in tavola.
Altro grande elemento della cucina vegetale pugliese sono le cime di rapa e la cicoria. Le prime vengono generalmente bollite e poi predisposte per i successivi impieghi. Soltanto bollite, per esempio, possono essere condite con olio in cui sia stata messa a soffriggere della mollica di pane, oppure possono essere messe in tegame e « strascinate» con olio e aglio per condire le orecchiette, oppure ancora possono essere preparate a crudo stufate. In una prima versione si mettono in tegame senz’acqua e le si lascia spurgare il loro liquido di vegetazione, che è un po’ amarognolo, si aspetta che questo evapori completamente e si tira a cottura con olio, aglio, foglie di alloro e vino bianco o rosato.
A Bitonto, le cime di rapa cuociono direttamente in acqua salata con cipolle affettate. Vengono scolate e servite con olio d’oliva. Parenti prossimi delle cime di rapa sono, in Campania, i friarelli. Si trovano soltanto a Salerno e sono tenerissimi broccoli-rapa che vengono cotti in padella con olio, aglio e peperoncino. Più facile trovare, in Campania e in tutta l’area meridionale che comprende Basilicata e Puglia, la cicoria dai molteplici usi.
Nel barese questa buonissima erba finisce, bollita, per unirsi alla purea di fave in un piatto millenario, di straordinario sapore, condito semplicemente con olio d’oliva crudo; stesso impiego si registra nella tradizione lucana mentre, risalendo verso nord, accanto alla cicoria strascinata laziale (solo bollita e saltata in padella con olio e aglio) troviamo in Abruzzo una insolita e delicatissima minestra: si usa in questo caso cicoria selvatica, si fa bollire e, scolata, soffriggere in un fondo di olio, lardo e cipolla proseguendo nella cottura con una adeguata quantità di acqua.
Alla fine si versa in una zuppiera dove sono uova sbattute e pecorino grattugiato, per coprire poi tutto quanto con brodo di gallina bollentissimo. Ne risulta un insieme di sapori perfettamente equilibrati e un piatto che è una perfetta sintesi di principi nutrizionali, un esempio di corretto rapporto fra ingredienti vegetali e di origine animale come dovrebbe sempre essere quando la cucina, per semplice e contadina che sia, sa essere grande.
da ITALIA A TAVOLA Guida Gastronomica Touring Periodici