John Ruskin Diario di viaggio
John Ruskin Pittore ti voglio parlare
Nuvole che corrono, un temporale lontano, il sole che ritorna: la campagna romana diventa una tavolozza
di colori per uno dei grandi della letteratura inglese delI’800. Che dal fogliame degli alberi o da antichi muri trae lo spunto per meditare, in una delle più appassionanti pagine di “Modem painters”, sul rapporto tra luce e natura
da Rivista MERIDIANI Lazio
Diario di viaggio
“Aricia”, il quadro di cui parla Ruskin (in realtà si tratta di un immaginario scorcio di Tivoli), è conservato alla National Gallery di Londra.
Quest’olio su tela fu dipinto nel
1670 da Gaspard Dughet, artista
di origine francese nato a Roma
nel 1615, uno dei paesaggisti più
noti dell’epoca.
Dughet si faceva chiamare anche
Poussin, dal nome del cognato e
maestro Nicola
immagini Corbis / Contrasto
Parte seconda, sezione seconda, capitolo secondo
Osservazioni sul colore in “La Riccia” di G. Poussin.
C’ è, nella prima sala della National Gallery, un paesaggio attribuito a Gaspard Poussin, intitolato talvolta Aricia, talvolta Le o La Riccia, secondo il capriccio degli stampatori di cataloghi.
Se sia possibile ravvisarvi l’antica Aricia, oggi La Riccia, presso Albano, non mi prenderò la briga di appurare, visto che la maggior parte delle cittadine di questi antichi maestri possono somigliare a qualunque posto; ma, in ogni caso, è una città situata su una collina ricoperta da trentadue macchie di vegetazione di grandezza molto uniforme, e ciascuna infoltita da un numero circa uguale di foglie.
Queste macchie di vegetazione sono tutte dipinte d’uno spento color marrone, che si fa lievemente verdastro in prossimità delle luci, e lasciano scoperto, in un punto, un tratto di roccia, che ovviamente in natura sarebbe stata d’un freddo grigio, accanto alle lussureggianti sfumature del fogliame, e che dunque, trovandosi per di più completamente in ombra, è stata logicamente e scientificamente
dipinta d’un chiarissimo e grazioso e indiscutibile rosso mattone, l’unica cosa che somigli a un colore in tutto il quadro.
Il primo piano è un tratto di strada che, in ragione della sua maggiore vicinanza, del fatto che si trova completamente in luce e, si presume, della gran quantità di vegetazione che abitualmente cresce sulle carreggiate, è resa in un grigioverde freddissimo; e la verità del dipinto è completata da parecchi puntini corredati da un peduncolo sparsi nel cielo, sulla destra, dipinti d’un sobrio marrone del solito genere.
Or non è molto discendevo lentamente proprio quel tratto di strada, dopo la prima curva che s’incontra lasciando Albano, non lievemente ostacolato dai validi successori degli antichi prototipi di Veiento.
Faceva un tempo matto quando avevo lasciato Roma, e su tutta la Campagna romana le nuvole tra scorrevano contro un azzurro sulfureo, con qualche rombo di tuono, e squarci di sole lungo l’acquedotto Claudio che ne accendevano gli archi, in finiti come il ponte sul caos.
2. Paragonato al paesaggio reale.
Ma, mentre salivo il lungo pendio del Monte Albano, il temporale si diresse a nord, e il nobile profilo dei palazzi di Albano, insieme alle belle macchie scure dei suoi lecci, si levava contro l’alternarsi delle nette striature ambra e azzurre; in alto, il cielo via via s’insinua va tra gli ultimi frammenti di nuvole temporalesche in correnti d’un profondo palpitante azzurro, mezzo etere, mezzo rugiada.
Il sole di mezzogiorno scese a precipizio i pendii rocciosi di La Riccia, e la loro verzura, le cui sfumature autunnali si mischiavano all’umido verdeggiare di mille sempreverdi, se ne imbevve come della pioggia.
Non riesco a chiamarlo colore: era una deflagrazione. Porpora, cremisi, scarlatto, come le cortine del tabernacolo di Dio; osannanti, gli alberi affondavano sino a valle in un vento di luce, ogni singola foglia radiosa di vita incandescente e ardita; ciascuna, a seconda che riflettesse o trasmettesse il raggio di sole, prima una torcia e poi uno smeraldo.
Su su negli anfratti della vallata, le verdi lontananze s’inarcavano come il cavo di onde possenti in un mare cristallino, come schiuma sui fianchi i fiori del corbezzolo, come una nuvola di spruzzi l’argento degli aranci, che esplodeva sul grigio delle rocce in migliaia di stelle; sbiadendo e riaccendendosi a seconda che la brezza soffiasse o cadesse.
Ogni stelo d’erba splendeva come il lastrico d’oro della Gerusalemme Celeste, aprendosi in subiti bagliori a seconda che il fogliame schiudesse o serrasse la sua chioma su di esso, come una lama di luce squarcia le nuvole al tramonto; le masse immobili di rocce scure, scure sebbene cosparse di licheni scarlatti, gettavano la loro ombra quieta sulla incessante irradiazione dell’erba, mentre la fonte sottostante alle rocce colmava il suo cavo marmoreo d’azzurra foschia e suoni appropriati; e su tutto questo, la moltitudine di raggi d’ambra e rosa, le sacre nuvole senz’ombra alcuna che esistono solo per illuminare si mostravano a insondabili intervalli di tra il solenne, racchiuso abbandono dei pini domestici, trascorrendo per smarrirsi nell’ultimo bianco re accecante della linea sconfinata dove la Campagna romana si scioglieva nella fornace del mare.
3. In fatto di luminosità, lo stesso Turner è inferiore alla natura.
Ditemi un po’ chi somiglia di più a questa scena, Poussin o Turner? Neppure nei suoi tentativi più audaci e stupefacenti, lo stesso Turner potrebbe anche solo accostarvisi; ma in quel momento, non avreste potuto immaginare o ricordare opera d’altro uomo che avesse la minima ombra di somiglianza con quel che ave vate appena veduto.
Né parlo di cose insolite o. innaturali; non c’è clima, né luogo, né ora quasi, in cui la natura non ci mostri colori che nessuno sforzo di uomo mortale possa imitare o avvicinare. Perché tutti i nostri pigmenti artificiali sono, anche se guardati nelle medesime circostanze, spenti e privi di luce al cospetto dei suoi colori dal vivo; il verde d’una foglia che cresce, lo scarlatto d’un fiore fresco nessuna arte, nessun espediente può replicarli; ma oltre a ciò, la natura ostende le sue tinte sotto un’intensità luminosa che esalta la loro luminosità; mentre il pittore, privo di quello splendido ausilio, lavora pur sempre con quella ch’è di fatto una grigia ombra, a paragone della forza del colore naturale.
Si prendano uno stelo d’erba e un fiore scarlatto, li si ponga in piena luce accanto al la tela più luminosa che mai si sia congedata dal cavalletto di Turner, e il dipinto ne verrà spento. Lungi dall’esagerare la natura Turner, in fatto di mera intensità luminosa del colore, non eguaglia nemmeno la metà del suo splendore. Ma usa forse questa luminosità di colori su oggetti ai quali essa non conviene?
Parte seconda, sezione sesta, capitolo primo
3. Apparente assottigliamento causato dai frequenti germogli.
Nella maggior parte degli alberi, quando i tronchi gettano ramoscelli e frasche di leggero sottofogliame, in modo tale che ogni fibra individuale assuma il proprio esatto spessore di legno dal gambo genitore, e quando molti di questi ramoscelli si staccano, non lasciando come traccia della propria vita altro che una piccola escrescenza, allora, di frequente, appare come un delicato ed esile assottigliamento del tronco stesso.
La stessa operazione avviene invece con più frequenza nei rami; dato che la quasi totalità degli alberi tende per natura a gettare dai propri giovani rami più legno di quanto questi ne possano sostenere; legno che, con la crescita del gambo, si contrae nel punto di inserzione così da controllare il flusso della linfa, dopo di che muore e si stacca, lasciando lungo tutto il ramo, prima da una parte e poi dall’altra, una serie di piccole escrescenze sufficienti a spiegare un assottigliamento pur molto esile; esile al punto che, se scegliamo un ramo senza biforcazione o senza un getto che lo divida oppure diminuisca, difficilmente riusciamo a vedere il processo di assottigliamento; e non lo vedremo affatto se scegliamo un tratto privo delle tracce di una precedente ramificazione.
4. E attenzione della natura a cancellare il parallelismo.
Ma la natura nasconde con grande cura e sforzo tale uniformità caratteristica dei suoi rami; i quali costantemente si suddividono in frasche sparse che rubano la loro sostanza delicatamente laddove l’occhio non scorge il ladro se non quando, un po’ più sopra, ne avverte la perdita; e nelle parti superiori dell’albero le ramificazioni avvengono con una costanza e delicatezza tali che l’effetto sull’occhio è simile a quello che si otterrebbe se gli alberi veramente si assottigliassero, salvo in quei tratti in cui un ramo avaro, avido di sostanza, si allunga per due o tre iarde senza separarsi da nulla, facendosi sgraziato.
5. Il grado di assottigliamento che può essere rappresentato come continuo.
Quindi vediamo che, pur potendo e dovendo rappresentare i rami come se realmente si assottigliassero, essi si assottigliano effettivamente solo qualora si diramino fogliame e frasche e quando si trovano a una distanza tale che le biforcazioni particolari e le divisioni non possono essere evidenti all’occhio; inoltre, anche in tali circostanze, il processo di assottigliamento non può essere improvviso e rapido.
Nessun ramo perde mai più di un decimo del suo diametro su una lunghezza di dieci diametri, anche se pare assottigliarsi armoniosamente. Qualsiasi diminuzione maggiore si spiega, necessariamente, con una visibile ramificazione, e deve avvenire per gradi a ogni biforcazione.
6. Gli alberi di Gaspard Poussin.
Perciò vediamo subito che il fusto dell’albero alto di Gaspard Poussin, a destra di La Riccia nella National Gallery, è la raffigurazione di una carota o di una pastinaca, non del tronco di un albero. Infatti, essendo vicino al punto in cui ogni singola foglia è visibile, in natura non avremmo dovuto vedere un ramo o un gambo che davvero si assottiglia.
Avremmo dovuto ricevere l’impressione di un’aggraziata diminuzione; ma, ad un esame rintracciabile, ad un esame attento, nodo per nodo, biforcazione dopo biforcazione, nei mille sostegni minori delle foglie.
Al contrario, il fusto di Gaspard Poussin getta solo, complessivamente, quattro o cinque rami minori, e sia il fusto che i rami si assottigliano bruscamente, senza mostrarne le ragioni; senza rinunciare a un singolo ramoscello, senza traccia di ruvidezza o escrescenza, dunque lasciando che le loro foglie sfortunate si tengano aggrappate come meglio possono.
In ogni caso, si tratta di foglie abili, che si sostengono come fanno le api in sciame, continuando a sorreggersi l’un l’altra.
7. E gli alberi della scuola italiana in generale rifiutano questa regola.
Ma anche questo brano di pittura è uno scherzo in confronto alla perpetrazione del ramo visibile nell’angolo in alto a sinistra del quadro di fronte: Paesaggio presso Albano. Si tratta della raffigurazione di un gruppo ornamentale di zanne d’elefante con piume legate all’estremità.
Nemmeno la più fervida immaginazione potrebbe mai scorgere in essa una minima somiglianza con il ramo di un albero. Potrebbero essere le unghie di una strega, gli artigli di un’aquila, le corna di un diavolo; è invece una raccolta completa delle possibili falsità riguardo al fogliame, un’opera talmente rozza che, a una sola occhiata, dovrebbe provare l’assoluta cialtroneria e l’assoluto inganno dell’intero sistema dei paesaggisti antichi.
Poiché mi allontanerò per una volta dal mio metodo abituale che prevede l’astensione del giudizio su cosa sia o non sia bello, dirò subito che disegni come questi sono tanto squallidi quanto infantili, offensivi quanto falsi; e l’uomo che riuscisse a tollerarli, o peggio, che riuscisse a metterli deliberatamente su tela, dimostrerebbe di non avere né vista, né capacità di cogliere un solo attributo o una sola eccellenza delle opere di Dio.
Avrebbe potuto disegnare l’altro fusto per scusabile ignoranza, o guidato dalla falsa convinzione di poter superare in meglio la natura; il secondo è imperdonabile.