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Cultura,  Eventi

Il Carnevale di Venezia

IL DONO DI FALIER

Secondo la cronaca sarebbe
stato proprio il 32esimo doge della Serenissima a istituire la festa, nel 1094, ma è dal 1296 che maschere e scherzi diventano ufficiali per volere del Senato.

Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti…
di Elena Del Savio

da Rivista MERIDIANI Venezia

il”bel mondo ” in maschera allo storico Caffè Florian, dal 1720 sotto i portici delle Procuratie Nuove in piazza San Maro,

La tomba di Vitale Falier Dedoni si trova nell’atrio  della basilica di San Marco: quella del 32esimo doge della Repubblica di Venezia,  morto dopo oltre undici anni  di governo nel 1095 (c’è chi  dice nel 1096), è la più antica  sepoltura dogale nella basilica. 

D’altra parte Vitale apparteneva  a una delle più potenti famiglie  della città e proprio sotto la sua  amministrazione ebbero fine  i lavori di costruzione dell’attuale  San Marco, iniziati una trentina  di armi prima.

La sontuosa  chiesa che conosciamo fu  solennemente consacrata l’8  ottobre 1094 alla presenza  dell’imperatore Enrico IV e  accolse subito le reliquie del santo  nella cripta appena terminata.  La cronaca minore attribuisce  però a Falier anche l’istituzione,  nello stesso anno, del carnevale  (sinonimo di divertimenti  pubblici) prima dell’inizio della  Quaresima.

In fondo, non si  trattava certo di una novità:  feste di quel tipo le facevano già i romani. I loro Saturnali  erano contrassegnati da sacrifici,  banchetti feste di piazza  e sovvertimenti dell’ordine  sodale con scambio di ruoli:  gli schiavi potevano sentirsi  liberi ed eleggevano un princeps  che indossava una maschera  con le sembianze del dio.  

La firma ufficiale sul certificato  di nascita del carnevale fu però  apposta solo nel 1296, quando  il Senato emanò un editto che  dichiarava festivo l’ultimo giorno precedente la Quaresima (anche se le celebrazioni partivano  addirittura alla fine di dicembre,  quando si svolgevano gli antichi  Saturnali).

All’epoca era doge  Pietro Gradenigo, che nel 1297  sarebbe riuscito a far passare la  Serrata del Maggior Consiglio,  cioè un provvedimento che – imponendo di selezionare fra i  patrizi, su base ereditaria, i membri  di quell’importante organo della  Repubblica cui spettava l’elezione  del doge – decretava il carattere  esclusivamente aristocratico  del governo della Serenissima. 

Questa consacrazione diede lo slancio necessario per trasformare, già allora,  a carnevale in un business.  Sebbene sia attestata l’esistenza  di una scuola di mascarerì (o  maschererì) già nel 1271, l’attività  di produzione delle maschere si  va intensificando, tanto che nel  1436 verrà riconosciuta come  “arte “, corporazione di maestri  artigiani dotati di una marìegola  o statuto.

Nel periodo del carnevale, nelle calli appartate e lungo i rii minori, si ha la sensazione di non trovarsi nel XXI secolo..

D’altra parte anche il  carnevale veneziano aveva come  caratteristica fondamentale il  travisamento, l’abbandono della propria identità e delle abitudini  quotidiane – oltre che di parecchie  convenzioni e inibizioni – per  assumerne altre fittizie, in una  grande recita a soggetto sul  palcoscenico della città.

Scenografia d’eccezione per uno scatto: la scala gotico rinascimentale di Palazzo Contarini del “Bovolo” (che in veneziano significa proprio “a chiocciola”)

Con la  protezione garantita dalla “larva ”  si poteva infatti abbandonare ogni  freno: questa maschera bianca a  becco, coprendo interamente il  volto e alterando la voce di chi la  indossava (senza però impedirgli  di bere e mangiare), era uno scudo  sicuro al riconoscimento.

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Era usata  soprattutto dagli uomini, mentre  le donne potevano optare per  la “moretta”, piccola maschera  ovale di velluto nero e dalle forme  femminili importata dalla Francia,  dove veniva indossata dalle dame  per far visita alle monache.

Per  farla aderire al volto bisognava  serrare fra i denti un bottone, che  condannava quindi al silenzio chi  la portava. Di foggia inquietante,  la “larva” (che in latino vuol dire  proprio “maschera”, ma anche  spettro) componeva – insieme con  tricorno e tabarro – la “baùta”,  un costume usato anche fuori dal  carnevale, in occasione di feste, a  teatro, in avventure extraconiugali  e ogni qual volta si preferiva  l’anonimato.

Sopra: la sartoria di Stefano Nicolao a Cannaregio (www.nicolao.com ) realizza costumi d’epoca per il teatro e il carnevale.

Così abbigliati i  veneziani che s’incontravano  per strada si salutavano con un  “Buongiorno, siora maschera”.  

Non di rado con la protezione  della “baùta” (una delle ipotesi  sull’etimologia della parola è che  venga dal tedesco behùten, che  significa esattamente “proteggere”)  si compivano azioni truffaldine,  criminali o “immorali”.

Tanto che  le autorità cercarono di porre  un freno con progressivi divieti  all’uso della maschera in luogo  pubblico: nel 1339 fu bandita  dalle strade durante la notte, nel  1458 dai luoghi sacri, nel 1703  dalle case da gioco.

Di contro,  dal 1776 la maschera fu imposta nei teatri, ma solo alle  donne sposate, la cui virtù era  evidentemente tenuta in maggior  conto di quella dei loro mariti.  

Balli, banchetti, spettacoli  di saltimbanchi per calli e campi  garantivano il divertimento  all’insegna del “liberi tutti “. Una  breve poesia di Carlo Goldoni è la  sintesi dello spirito carnascialesco:  “Qui la moglie e là il marito /  Ognun va dove gli par / Ognun  corre a qualche invito, / chi a  giocar chi a ballar”.

In effetti, il  Settecento di Goldoni e Casanova  fu l’ “età dell’oro ” del carnevale  veneziano.

Dopo un’anteprima in  ottobre (in occasione dell’apertura  dei teatri), si riprendeva dopo  Natale, quando le autorità  concedevano l’autorizzazione  a indossare la maschera, per  arrivare fino al Martedì grasso.

 Una festa continua che incominciò  ad attrarre appassionati da ogni  parte d’Europa: Johann Wolfgang  Goethe, durante il suo soggiorno  in Italia fra il 1786 e il 1788, la  frequentò più volte e come lui  fecero tanti giovani della bella  società continentale, che spesso  iniziavano il proprio Grand Tour  proprio dalla città lagunare.  

Ritrovo “settecentesco ” all’ombra della doppia facciata del tre-quattrocentesco palazzo Soranzo, in campo San Polo.

Erano moltissimi i luoghi  che garantivano divertimenti:  dai grandi palazzi nobiliari con i  loro ospitali giardini ai teatri, dai  caffè al primo casinò d’Europa,  il “ridotto pubblico ” istituito  nel 1638 a palazzo Dandolo di  San Moisè e attivo fino al 1774  (in calle Valaresso 1332, oggi  Hotel Monaco & Grand Canal),  restituitoci – con i suoi nobili  e libertini clienti mascherati – dai dipinti di Pietro Longhi e  Francesco Guardi.

E poi le piazze,  le rive, i campi e i campielli, dove  musici, danzatori e attori girovaghi  davano spettacolo. Insieme con  animali esotici, come gli elefanti e  i rinoceronti raffigurati nei quadri  di Longhi. Le cronache raccontano  anche di giochi crudeli come la  “cazza al toro” del Giovedì grasso,  nei campi San Geremia e San  Polo: stanchi bovini trattenuti  per le coma venivano aizzati (e  sbranati) dai cani, quindi macellati  e, talvolta, decapitati con un solo  colpo.

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Sebbene fosse stata bandita,  la tradizione del Giovedì grasso  di tagliare la testa al toro era sopravvissuta, anche come prova  di maestria dei macellai.  La pratica risaliva all’epoca di  Vitale II Michiel. Nel 1163 il  38esimo doge aveva imposto allo  sconfitto vescovo di Aquileia di  versargli, in cambio della libertà,  un tributo da inviare a Venezia il giovedì dell’ultima settimana  di carnevale: un toro (in realtà  un bue), dodici maiali e altrettanti  pani.

Con questi “doni ” erano  allestiti i festeggiamenti in piazza  San Marco, che prevedevano un  processo con condanna a morte e  la decapitazione del bue, simbolo  del prelato stesso, le cui carni  erano poi distribuite al popolo.  Da qui deriverebbe il detto  “tagliare la testa al toro “, cioè  porre fine a una questione con  un provvedimento drastico. 

Fra le attrazioni che nel  Settecento animavano il Giovedì  grasso in piazza San Marco si  ricorda lo spettacolo pirotecnico  della Macchina dei fuochi,  immortalata in un dipinto di  Francesco Guardi.

E poi le Forze d’Ercole, dove due gruppi di  sestieri (i Castellani di San Marco,  Dorsoduro e Castello contro i  Nicolotti di Cannaregio, San  Polo e Santa Croce) si sfidavano  in due piramidi umane (un po’  come i castell catalani), e il Ballo  della Moresca, una danza con le  spade che rievocava lo scontro fra  mori e cristiani.

Qui sopra: a San Polo, Francesco Briggi crea abiti e cappelli ispirati ai dipinti (www.pietrolonghi.com); accanto , il Caffè Florìan.

Anche il teatro La  Fenice, inaugurato nel 1792, prese  a ospitare feste danzanti come  il Gran ballo della Cavalchina  (ripresa nel 2007), che seguiva  la sfrenata corsa di cavalli che si  svolgeva in piazza San Marco.  

Poi vennero i giorni bui.  La Serenissima cadde nelle mani  di Napoleone (1797) e quindi  degli austriaci, avvicendatisi ai  francesi nel governo della città,  che videro subito con sospetto  il carnevale e le licenze che esso  consentiva grazie all’anonimato. 

E pensarono bene di abolirlo  tout court, consentendo solo le feste  nelle case private e la Cavalchina  alla Fenice. Solo Murano, Burano  e Torcello, in nome di una sorta  di extraterritorialità, poterono  continuare quasi indisturbate  con le proprie tradizioni.  

L’ultimo fremito si ebbe nel 1913, quando Luisa Casati affittò piazza San Marco per una festa in maschera di grande teatralità,  il ballo Longhi, uno degli sfarzosi  intrattenimenti che alimentavano  la fama dell’eccentrica e tenebrosa  marchesa, amica di artisti e  letterati come Giovanni Boldini e Gabriele D’Annunzio.  

Sarebbe stata la forte passione  dei veneziani per il teatro a  riportare in vita le tradizioni del  carnevale. Nel 1979, per la prima  volta a quasi due secoli dal suo funerale, comuni cittadini, talora riuniti in associazioni civiche,  ripresero spontaneamente a uscire  in maschera per le ripe, a ballare  e a far festa.

Come spesso accade,  l’iniziativa era partita dai giovani,  quasi per una trovata goliardica  che però intercettava segnali già  presenti in città. Sui quotidiani  locali i cronisti registrarono  stupiti “l’inaspettata rinascita del  Vecchio Carnevale” e subito le  istituzioni intervennero per dar  forma a quei moti spontanei. 

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Con I loro sgargianti travestimenti, i percussionisti del gruppo zurighese Bollito Misto si esibiscono in piazza San Marco.

L’anno successivo la festa si  ripetè, esprimendo tutto il proprio  potenziale creativo nel mescolare  i concetti di rappresentazione  e inpersonificazione. Piazze,  chiese e ponti divennero sfondo  per spettacoli, anche itineranti  mentre i teatri aperti 24 ore su  24 fecero il tutto esaurito.

Fra i  veneziani si rafforzava il senso  di appartenenza, di legame alla  propria storia e alle tradizioni.  Sono nate in quegli anni le  associazioni che si rifacevano alle  storiche “compagnie della calza”,  circoli di giovani nobili che nel  Quattrocento e nel Cinquecento  erano dediti all’organizzazione  di spettacoli e “giullerie”  carnevalesche, distinguendosi  appunto l’uno dall’altro per i  diversi colori delle calze.

Fra le  attività promosse dalle rinnovate  confraternite: corsi di ballo storico  e di cucito, per realizzare abiti  d’epoca filologicamente perfetti, e organizzazione di cene, danze e  cortei in costume, in un tentativo  di contrapporre l’identità del  carnevale storico agli aspetti più  sguaiati e commerciali di quello  odierno.

Una spettacolare Venezia-Luna vola sul rio di Cannaregio: è il momento clou della Festa sull’acqua, cerimonia di apertura del carnevale.

Oggi queste sacche di  resistenza agli eserciti di maschere  made in China e di mantelli di  raso sintetico sono sempre più  percepibili. E non è raro, specie  nelle zone della città relativamente  risparmiate dalla pressione  turistica, imbattersi in figure che  sembrano uscite dai quadri di  Longhi.

Spesso sono uomini e  donne d’età, i volti coperti da un  velo di cipria, trine, perle, velette,  parrucche, calzamaglie di lana  che spuntano da bragoni sbuffanti  al ginocchio, lunghi e sottili  bastoni neri da passeggio.  

Certo, negli ultimi anni l’arte  del costume ha raggiunto vette di grande maestria, come  dimostrano i concorsi con sfilate  in passerella che si tengono ogni  giorno durante il carnevale. Certe  mise sono frutto di molte giornate  di lavoro, oltre che di estrema  creatività: una tendenza in linea  con il background dell’attuale  direttore artistico del carnevale,  il milanese Marco Maccapani,  ideatore e produttore di grandi  eventi internazionali legato al  mondo dell’alta moda.

Alcuni  travestimenti sono veri e propri  tableau vivant, composizioni mobili  costituite da più personaggi.  

Ma in teoria bastano un tricorno,  qualche Strass attorno agli occhi e  due piume colorate fra i capelli per  entrare nell’atmosfera. Altrimenti  ci sono costumi a noleggio: nei  negozi attrezzati se ne trovano di  ogni tipo, a un prezzo che si aggira  sui 200 euro al giorno.

Oppure  si possono indossare direttamente  nelle sale da ballo, dove sono  compresi nel prezzo del biglietto,  in genere salato (fino a 1.200 euro,  con cena). E c’è di che scegliere,  visto che i balli in maschera sono  sempre molti e vari: ben venti  nell’edizione di quest’anno. (2017)

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