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Cultura

La Cucina Regionale Sardegna

La prima emozione che si prova nel visitare la Sardegna è un senso di liberazione dai troppi condizionamenti della società moderna; tanto è immediata da suggerirci di affidare anima e corpo alla natura, al paesaggio, alle civiltà di questa terra. Ancora oggi, sia la campagna che i centri abitati nascondono e conservano gelosamente antiche usanze e culture.

Dentro la bellezza e il mistero della Sardegna c’è infatti la convergenza di più civiltà succedutesi nei secoli; e i sardi ne sono ancora fieri custodi e ambasciatori.

La terra, tremendamente ostile, è stata combattuta, condizionata, accarezzata, coccolata, per viverla e goderne i frutti. Lo testimoniano la singolarità dei prodotti alimentari, unici e al tempo stesso vari. Unici per qualità e doti; vari per tipicità e manipolazione tradizionale, frutto della fantasia e della ritualità.

Perché, va detto, tutta la cucina sarda convive con le grandi ricorrenze della vita: in cucina, infatti, le festeggia e le ricorda attraverso i suoi piatti. A volte sconcertanti per la semplicità, ma pur sempre ammirevoli per il decoro e la fantasia: così, dai pani ai dolci, dalle zuppe alle carni, dalle verdure ai vini.

Capitolo dopo capitolo, in una progressione architettata e voluta per mettere a proprio agio il lettore (preoccupati di affascinare anche il neofita), abbiamo proposto gli alimenti come si è soliti organizzare un menù.

Seguiteci passo passo; vi accompagneremo dagli anfratti costieri più assolati alle ombre dei boschi e delle case; dalle trasparenze dell’acqua ai cortili e agli ovili per farvi gustare i frutti della pesca e della pastorizia, dell’orto e del vigneto, senza dimenticare la cacciagione, in una serie di ricette legate da un comune denominatore: la tradizione e la fantasia.

A.M.P.

da LA CUCINA SARDA Alessandro Molinari Pradelli NEWTON & COMPTON EDITORI

Pane campidanese


Così scrive Marlena Camas nel suo volume La cucina dei sardi:
Il grano dovunque usato in Sardegna per la confezione casalinga del pane era grano duro. Già il giorno appresso a quello in cui si finiva di preparare il pane si lavava il grano che si sarebbe utilizzato per preparare la provvista successiva.

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Il grano lavato si lasciava asciugare, preferibilmente all’aperto, sparso su coperte di lana oppure dentro canistéddus. Dopo circa due giorni si purgava il grano dalle impurità non eliminate dal lavaggio, cioè si eseguiva la cerridura e la prugadura con due diversi tipi di cibiru. Il grano era quindi pronto per essere macinato con l’antica mola – asinaria – sarda […].

Una volta macinato il grano, se ne ricavavano varie specie di farina usando stacci di diverse dimensioni: due specie di fior di farina, detto scetti, due specie di crusca, detto poddini, due specie di semola, detta simbula. Una delle due specie era più pregiata e più fine dell’altra per tutte e tre le qualità di farina.

Con lo scetti si confezionava il pane più comune e perciò di consumo giornaliero, detto civraxu. Con la semola più fine si preparavano i pani più pregiati e di forma più elaborata. Attraverso varie fasi di stacciatura si poteva ottenere anche una terza qualità di semola, detta simula iscerada, con cui si confezionavano i pani più pregiati in occasione di ricorrenze straordinarie, come le nozze.

Con la crusca più fine si confezionava un civraxu scuro considerato di scarso valore, mentre con la crusca più grossa, presso le famiglie più abbienti soprattutto, si confezionava un tipo di pane per i cani.


La sera prima del giorno stabilito per fare il pane, si eseguiva l’operazione arremissi su froméntu, cioè si squagliava un po’ di pasta fermentata (conservata dall’ultima volta per servire da lievito per la volta successiva) badando a che la quantità fosse ben proporzionata; si preparava anche la quantità prevista di sale e di farine di vario tipo e si pulivano gli strumenti che sarebbero stati adoperati; infine si metteva a scaldare una grande quantità d’acqua […].

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Ci si alzava molto presto per proseguire il lavoro. D i solito ciò non avveniva più tardi delle due del mattino.
L a prima operazione era quella di cummossai, cioè di impastare la farina con acqua salata e calda. Si impastava prima di tutto la semola più fine per preparare i pani più pregiati, cioè i cosiddetti coccois e marìtsosus, quindi tutte le altre qualità di farine per preparare i diversi tipi. Dopo la cummossadura, la pasta si amalgamava col lievito, ormai ridotto a una emulsione, adatta all’impasto.

A questo punto si iniziava a ciuexi, cioè l’operazione più faticosa, intorno al grande tavolo (che in ogni cucina occupava il posto più riparato e veniva tenuto con la massima cura: era detto sa mésa po fai su pani, «il tavolo per fare il pane»), ciascuno col suo pezzo di pasta, e lo stiracchiavano e lo rigiravano, bagnandolo ogni tanto con acqua calda non salata.

Questo trattamento era riservato però solo alla pasta di semola per i coccois, che venivano tanto più buoni e teneri quanto più la pasta veniva rimenata.
Intanto era trascorsa un’oretta e si faceva qualche minuto di pausa, durante la quale si beveva il “caffè”, a questo punto tradizionalmente d’obbligo.

Questa era la prima parte dell’operazione di ciuexi.
Quando si riprendeva l’opera, venivano assegnati a persone diverse tre compiti principali: parte iniziava la seconda ciuexidura, il lavoro di prima ripetuto per il pane pregiato, parte iniziava la spongiadura, cioè manipolava coi pugni chiusi, premendola e impastandola, la pasta contenuta dentro recipienti di terracotta detti sciféddas.


Una persona si incaricava di scaldare il forno, con legna o con paglia di fave.
Fino a una trentina d’anni fa i più poveri usavano raccogliere sterco di bue o di altri animali e ne facevano provvista per bruciarlo per scaldare il forno.

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Quando si riteneva che la pasta di semola era stata lavorata abbastanza, si tagliava, e a ogni pezzo si dava una di quelle più o meno svariate forme (a seconda della ricorrenza e della bravura delle donne, che sole si dedicavano a questo lavoro di fino) che fanno di certi coccois dei monumenti di pazienza e di abilità.
Quelli che stavano spongendu la pasta per il civraxu erano intanto giunti al termine della loro opera; si versava la pasta sul tavolo, la si cueziada un pochetto anche essa e quindi se ne formavano delle grandi pagnotte piatte e tondeggianti, dette civraxus.

Si lasciava lievitare il tutto per circa un’ora. Il forno era nel frattempo giunto al punto giusto di calore. […]

Innanzitutto si introducevano nel forno caldo i pani meno pregiati, collocandoli nelle parti più esterne; per ultimi, al centro, venivano collocati i pani più pregiati ed elaborati. La cottura durava circa un’ora. Un modo per rendere lucenti i coccois era quello di bagnarli, quando erano quasi cotti, con acqua bollente e quindi reintrodurli nel forno per alcuni minuti.

Si panificava ogni dieci giorni circa.


Pane carasau

Originario del Nuorese, questo pane rimane il simbolo dei paesi montani, dove la pastorizia portava i suoi addetti lontano da casa anche per mesi. E le donne s’adoperavano per giorni a preparare un pane secco,
asciutto, adatto a conservarsi a lungo.
La descrizione dettagliata di questo pane la trovate alla voce Carta da musica.

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