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Cultura

La Cucina Toscana

La cucina regionale italiana  Toscana

Il mondo cominciò
con un peccato di gola.
JARRO

Brucia ricetta, brucia

Benché universalmente riconosciuti come santi, navigatori e poeti, io credo che noi italiani siamo soprattutto un popolo di affamati perché altrimenti non potremmo spiegarci come i libri più letti siano i libri di cucina.

Se ne scrivono centinaia ogni anno ma un lessico aggiornato dovrebbe sostituire al verbo «scrivere» l’altro «ruminare» trattandosi di riciclo di sacri testi riproposti con l’ accorta furbizia che evita denunzie di plagio.

Scrittori sconosciuti e improvvisati sempre con la pretesa di lanciare nuovi messaggi alla casalinga frastornata che non sa come i messaggi – diceva Eduardo — li portano solo i postini, estrapolano a man bassa mozziconi di ricette da Pellegrino Artusi, Petronilla, Ada Boni, Maria Luisa Incontri della Stufa e, lasciatemelo dire, da Giovanni Righi Parenti.

Lui sì che è un autentico scrittore che dà solennità alle sue ricette perché sente l’appeal gastronomico gustandolo nel descrivere il suo personale patrimonio di tradizioni senza ostentazione, senza il complice inganno delle foto patinate scattate da fotografi specializzati che per sortire effettacci cromatici cuociono la pasta nella camomilla, tingono il porcello sardo arrosto con il minio, non cuociono mai il pesce, in qualunque modo venga descritto, per conservargli la sua luminosità argentea.

Povere casalinghe, che pur attenendosi alle istruzioni mai riusciranno a eguagliare in bellezza i modelli delle foto mendaci!

Ho provato a leggerli quei libri. Dio sa se ci ho provato! Non ce l’ho fatta. Li ho buttati via tutti come figli illegittimi di scrittori rubaricette. Macerateli anche voi.
Bruciateli. Dio vi renderà merito di quel fil di fumo vendicatore. Siamo stufi marci di ricettume riciclato.

Ecco perché conservo in biblioteca solo i libri di Giovanni Righi Parenti che costituiscono il Verbo, la Bibbia, una «Summa» insuperata e insuperabile. Dovrebbero essere scritti su pergamena e miniati come gli antichi codici che ormai si trovano solo nelle aste di Sotheby’s, venduti clandestinamente alla faccia delle soprintendenze competenti.

Giovanni Righi Parenti sì che ha le carte in regola per dire la sua in fatto di cucina avendo un albero genealogico ai cui rami sono appesi i ricettari dei suoi antenati come Gerardo Righi Parenti, una delle figure più rappresentative del nostro ultimo Ottocento, scrittore, attore, disegnatore, poliglotta, viaggiatore ma anche farmacista esimio e cuoco celebrato avendo ereditato dal padre Enrico la passione alla gastronomia.

Enrico inventò il panforte «Margherita» che viaggiò in tutto il mondo portando il suo profumo natalizio ovunque dalle povere case di Brooklyn alle ville sontuose sulle rive eleganti del Massachusetts, costruite dai miliardari Morgan, Rockefeller, Vanderbilt nei roaring twenties.

Lo inventò il 17 luglio 1887 in occasione della visita a Siena de «le Maestà di Umberto I Re d’Italia e Margherita, nostra augusta Dama, alla corte di Fonte Branda per venerare la illustre dimora della Benincasa, onorevolmente incontrate, per buono spazio trattenute e incessantemente acclamate».

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E fu sempre lui ad inventare il panforte quadrato (l’uovo di Colombo) per renderne più agevole la spedizione ai nostri poveri soldati che durante la guerra d’Africa di turno (1911-1912) lo divoravano morenti ma cantando: «Tripoli bel suol d’amore».
Porannoi!

Basta, ho finito.
Vi lascio. Me ne torno in cucina a prepararmi la sublime scottiglia di pagina 23.

Grazie «Giovannirighiparenti», amico sincero e buono: da mangiare.
NANNI GUISO
Delegato Accademia Italiana
della Cucina di Siena

Giovanni Righi Parenti LA CUCINA TOSCANA NEWTON & COMPTON EDITORI

Non è facile parlare, per la vastità del tema, degli usi della terra toscana perché rimane difficile trovare qualcosa di tipico e di assolutamente inedito a causa delle troppe migrazioni di popoli che hanno traversato i confini dell’antica Tuscia e per le troppe influenze che hanno guastato e modificato i modi di vivere che la tradizione gelosamente custodiva.


I contatti con le limitrofe Liguria, Emilia, Lazio e soprattutto Umbria hanno in un certo qual modo snaturato certe tipiche usanze di questa terra. Le influenze umbre hanno se mai una ragione più concreta delle altre in quanto, nelle «terre degli Umbri», si impiantarono le prime colonie dei «Tirreni», il mitico popolo della Lidia che la carestia e la fame spinsero fuori dai suoi confini, come ebbe a narrarci Erodoto.

I Lidici, da Smirne, con alla testa Tirreno, dopo aver costeggiato molte spiagge, giunsero alla terra degli Umbri e, dal nome Tirreno, si chiamarono «Tirreni» come troviamo nei testi greci; al contrario i Romani, nei loro testi ebbero a nominare questo popolo sempre col titolo di Etruschi o Tusci, dalla zona che aveva il nome di Tuscia dove essi elessero la loro dimora.
Tuscia prima, Etruria in seguito, sarà la patria degli Etruschi che diedero un proprio indirizzo ai nostri costumi.

Non abbiamo scoperto ancora una chiave di lettura della loro lingua ma i tanti reperti archeologici, ritrovati in terra toscana, ci hanno permesso di decifrare le loro usanze.
Sicuramente i Romani attinsero dalle tradizioni etrusche molti moduli di vita e non solo nei più comuni comportamenti sociali ma in molte usanze che portavano nel quotidiano un insieme di migliorie.

Nella alimentazione ben possiamo ricordare le loro norme per la vinificazione, per gli allevamenti di animali da cortile insieme ai suini, gli ovini ed ai vaccini, e tra questi «i buoi, dalle lunate corna»… ancora presenti nella nostra Maremma.

Interessanti le loro tecniche nella suinicoltura ed infine la loro maestria nella piscicoltura di cui rimangono tracce nei bacini d’Orbetello e nella diga dell’Ombrone, presso la località della «Befa» di cui restano evidenti tracce.

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E sempre, a proposito di «pesca», interessanti le illazioni sulla «Tagliata etrusca», un varco artificiale scavato negli imponenti scogli d’Ansedonia, presso Vulci che, secondo alcuni studiosi, doveva servire quale trappola per la cattura del pesce.

Altra ipotetica lettura: che si trattasse d’una particolare «piscina» per il bagno ed il relax dei VIP d’allora.

Nella tecnica di cucina, l’odierna culinaria, troviamo piatti ancor oggi presenti sulle nostre tavole, vedi il «suovetaurilia», una vivanda preparata con carni miste di suino, agnello, manzo, che ritroviamo, pari pari, nell’«arrosto misto» e nella «scottiglia».

La presenza dell’«oca», che risultava una vera ghiottoneria, rimane ancor oggi attuale sia nella preparazione di succulenti «primi» che in «secondi» rappresentati da umidi fastosi.


Tra i piatti di particolare interesse c’è proprio un’«anitra in porchetta» di Arezzo che precede un’«anatra all’aretina» rifatta in umido il cui sugo servirà a condire le eccellentissime «pappardelle».

Ghiottoneria senza pari rimane, ancora ai nostri tempi, il «collo d’oca ripieno», piatto sempre presente negli allegri pranzi sull’aia durante la festa della «mietitura» in estate e, in autunno, per la «vendemmia».


La cottura del pesce arrosto come usa tuttora per il «brustico» di Chiusi oppure nella preparazione di quella particolare «minestra» detta «degli Etruschi» in uso sulle coste del Grossetano, dove vengono cucinati i pescetti più minuti, la minutaglia (che, per molti gastronomi, non è altro che la ricetta di un primitivo cacciucco), ci riportano in quel mondo antico che sopravvive anche nelle nostre più intime usanze.


Ricordo l’uso delle tante erbine profumate: «mentastro», «nepitella», «porro», «aglio», «cipolla» usate, con abbondanza, nella preparazione di piatti di carne e pesce.

L’«alloro», pianta ritenuta nobile, veniva piantata da formare addirittura dei boschetti detti lauretum.

S’usavano le foglie d’alloro per preparare balsami, per profumare i cibi, in particolare i sapidi arrosti di carne di cinghiale (personaggio insostituibile nella cucina etrusca), ma era una essenza messa a dimora di frequente nei parchi, accanto alle ville patrizie in quanto, attardarsi tra gli allori, risultava cosa estremamente piacevole.

Interessante notare la cura per l’olivo e la vite che accanto alla orticultura e alla cerealicultura portano in evidenza gli ingredienti della «Dieta mediterranea» oggi in auge quale alimentazione della salute e del benessere.


Si potrebbe continuare facendo riferimento a quella particolare scienza del «buon vivere» che ancora rivive nell’intimo dei veri Toscani: gli «ultimi Etruschi».
Troviamo ricette della cucina più umili quali una «zuppa di pane bagnato ed olive», e poi «pane condito con olio d’oliva ed aglio» dove potremo facilmente riconoscere la nostra «panzanella» e il celeberrimo «panunto», o «fettunta» ed infine «bruschettà» di tradizione per 1’«assaggio» dell’olio nuovo.


Così la attuale «Cucina toscana» può benissimo essere sottolineata quale trascrizione moderna dell’ancestrale «Cucina etrusca» che, come tale va presa in considerazione quale origine di moltissime vivande ancor oggi in uso nella normale pratica quotidiana.

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Una notevole verità impressionante a costatarsi è come per due volte la stessa parte dell’Italia centrale, l’Etruria antica e quindi l’odierna Toscana, sia stata il punto di sviluppo della civiltà italica. Nel secolo settimo a.C, e nel XV d.C (nell’alba della prima civiltà e nel secolo che segnava l’inizio dell’era moderna), in questa stessa regione ha avuto origine il fenomeno della nascita del popolo italico e poi della sua stessa rinascita.

Ma non si tratta di una semplice coincidenza: il mirabile paesaggio, l’aria, la luce vibrante della Toscana, non potevano non influenzare le genti che trovarono qui il luogo adatto allo sviluppo e alla ripresa.

Il genio toscano e poi il genio latino trovano facili contatti con questo popolo, lontano e vicino nello stesso tempo, che continua e si rinnova, attraverso tutto un destino, fino ai nostri giorni.

La Toscana dei Tusci può essere chiusa nell’ideale rettangolo: Piombino, Siena, Orbetello, Chiusi, ma dobbiamo, doverosamente, aggiungervi quella parte che lega Siena e Chiusi ad Arezzo in altra figura geometrica.

Non possiamo però parlare in freddi limiti: la terra toscana, arricchita nei secoli da nuova linfa, si
espande con la propria cultura vivendo ancorata alle vicende dei millenni. La Toscana ancora oggi insegna al mondo, come insegnarono i nostri padri ai Romani, con le basi della sua antica civiltà.


Non mi illudo d’essere riuscito a trovare le ricette assolutamente originali e le più precise; voglio sperare che il benevolo lettore, o il gastronomo smaliziato, non me ne vogliano per le mie inesattezze: vorrei solo pregarli di farmi conoscere le omissioni e di… raddrizzarmi, dove ce ne sarà bisogno, quelle ricette che, a loro avviso, sembreranno sbagliate.

Debbo ricordare come, di ciascun piatto, non esista un’unica versione perché basta, talvolta nella stessa zona, cambiare famiglia, che troviamo diversi aromi, diversi metodi di cottura, pur cucinando le stesse cose.

La migliore ricetta, d’ogni pietanza, è quella in cui riconosciamo il sapore d’una volta, il «sapore della mamma», come dicevano nel secolo scorso… Oggi in questo mondo tecnicizzato, sarà sempre più difficile riscoprire questo sapore.

Sarei lieto se, in qualcuno di questi piatti, soprattutto in quelli fatti di niente, di umiltà e pazienza, riuscirete a riscoprire quei sapori perduti, quell’odore di buone cose di cui, ciascuno di noi, sente nostalgia.

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