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Bartolomeo Scappi Gastronomia del Rinascimento

Il 30 marzo 1570 san Pio V concesse ad un suo fedele servitore il privilegio di stampa per la pubblicazione di un volume aulicamente designato come «Epulario, seu de re coquinaria»; tre giorni dopo anche il granduca di Toscana assicurò la sua tutela contro i contraffattori.

Ma quando, poche settimane più tardi, il volume venne in luce a Venezia dai torchi di Michele Tramezzino, si intitolò semplicemente Opera, quasi a proporsi come il testo principe in assoluto, senza specificazioni né lacune, dell’intera arte culinaria del secolo.

tratto da Gastronomia del Rinascimento UTET 1974

Esteso per ben 900 pagine di giusto formato, illustrato da nitide tavole e da un ritratto dell’autore, il libro recava in fronte il nome di Bartolomeo Scappi, « cuoco secreto di papa Pio V », ed era dedicato al suo superiore diretto, cioè a don Francisco de Reinoso, « scalco e cameriero secreto» del pontefice36.

Le funzioni di cuoco « segreto », cioè addetto a preparare le refezioni personali del papa, dovettero costituire per lui poco più di una sinecura, essendo ben noto che Michele Ghislieri, nei sei anni in cui resse la tiara (1566-1572), non fece che ribadire il costume di vita ascetico e l’intransigenza spietata che l’avevano contraddistinto nei lunghi anni passati nei conventi domenicani e nelle funzioni di Inquisitore.

Calvo, asciutto, infaticabile, il papa si levava di primo mattino per compiere lunghe camminate; estremamente parco nel mangiare e nel bere, aveva stanziato la misera somma di tre scudi e mezzo giornalieri per la sua tavola e pretendeva l’osservanza più scrupolosa dei precetti di astinenza.

Nel febbraio 1567 giunse a minacciare la scomunica a chi gli avesse adulterati i brodi di magro per sollevarlo dalle prostrazioni causategli dal digiuno. Due anni dopo, l’ambasciatore Veneto Paolo Tiepolo riferiva che l’indomito vecchio si ostinava a non dismettere la ruvida camicia di « rascia » che indossava da fraticello e mangiava poco o nulla, risultandone « di complessione collerica, adusto, magro, macilento, con gli occhi in dentro e tutto canuto »; non diverso lo vide nel ’72 Michele Suriano: scarno, aggressivo, taciturno, con « occhi piccoli » e « naso aquilino »37.

La sua dieta abituale era costituita a mezzodì da un po’ di pan cotto con due uova e da mezzo bicchiere di vino; la sera sorbiva una minestrina, seguita da qualche crostaceo con legumi o insalata, quindi da frutta cotta. Solo due volte la settimana assaggiava carne e per unico lusso beveva del latte d’asina, convinto che gli giovasse contro il mal della pietra.

Ma in gioventù Bartolomeo Scappi aveva affrontato ben altre prove, anche se poco sappiamo di lui, e quel poco attraverso le asciutte pagine del suo volume38. Il ritratto ce lo mostra come un ometto maturo dal capo un po’ affossato nelle spalle, con una prolissa barba bipartita ; lo sguardo appare benevolo, l’abito decoroso se non signorile.

Nulla ci dice delle sue origini, ma propenderei a crederlo di ceppo bolognese; certo a Bologna e in Romagna fiorirono poi nel ‘óoo oscuri uomini di lettere del suo stesso casato e proprio la prima pagina dell’Opera testimonia devozione sviscerata per mons. Alessandro Casali, bolognese lui pure. Nel 1536 era già autorevole nella professione in Roma al servizio del cardinale Lorenzo Campeggi (1474-1539), non a caso patrizio di Bologna, e gli toccò allora allestire un grande banchetto in onore dell’imperatore Carlo V, che, reduce da Tunisi espugnata, sostò nell’Urbe dal 5 al 18 aprile.

Un altro momento di gloria gli toccò più tardi, quando fu chiamato ad ammannire le vettovaglie per il lungo conclave (durato dal 29 novembre 1549 al 7 febbraio 1550) da cui sortì eletto papa Giulio III. Il 17 gennaio 1567 era già al servizio del Ghislieri, perché preparò il banchetto celebrativo del primo anniversario della-sua incoronazione, e tutto fa pensare che a mezzo il ’70, quando il suo libro vide la luce, egli fosse vivo e vegeto, anche se anziano ormai e disposto a godersi in pace i meritati allori.

Il suo trattato, ch’è il più ampio e completo fra quanti ne vennero elaborati nel ‘500, ha il carattere di una summa sistematica, frutto di innumerevoli esperienze codificate e filtrate da una rielaborazione unitaria ad opera di un redattore lucido, asciutto, efficiente, che usa un linguaggio tecnico altamente specializzato.

L’opera è divisa in sei libri, il primo dei quali è costituito da un « Ragionamento che fa l’autore con Giovanni suo discepolo », per ammaestrarlo nella difficile professione ; i due successivi trattano delle carni e relative salse nonché dei pesci, delle uova e degli altri cibi di magro; il quarto libro è dedicato alle « liste del presentar le vivande in tavola », cioè alle distinte per banchetti, il quinto ai diversi modi di ammannire pasticci, crostate, torte e frittelle, il sesto ai cibi per infermi e convalescenti.

Ventotto tavole incise in rame illustrano locali, arredi e attrezzature della cucina, fornelli, spiedi, vasellame, coltelleria, utensili, forniture da campo e da viaggio, costituendo una documentazione preziosa intorno ad un armamentario strumentale che non sembra aver compiuto nei secoli successivi un apprezzabile progresso tecnologico.

L’esordio didascalico rivela una matura consapevolezza della propria dignità professionale congiunta con un alto senso del dovere. Nell’insegnare «l’arte e prudenza d’un maestro cuoco», non esita a paragonarlo a « un giudizioso architetto, il quale, dopo il suo giusto disegno, stabilisce un forte fondamento e, sopra quello, dona al mondo utili e maravigliosi edifizii ».

Un cuoco « prudente e sufficiente » deve assommare in sé « ordine » ed « esperienza », cioè cognizioni sistematiche e lunga pratica; deve «ingegnarsi di sodisfare con delicate vivande agli appetiti generali e diversi» e imbandire portate non solo « saporose e grate al gusto », ma « piacevoli e dilettevoli all’occhio, con lor bel colore e vaga prospettiva », pronto in ogni Decorrenza a supplire con derrate che la stagione offra gli ingredienti non disponibili sul momento e ad improvvisare manicaretti variati anche con una dispensa mal fornita.

Complesso è il bagaglio di conoscenze tecniche che ci si aspetta da lui : dovrà essere un esperto di carni e pesci di ogni sorta, di tutti gli ingredienti commestibili, dei vari metodi di conservazione e di cottura, dell’intero corredo di attrezzi e di impianti. Dovrà perciò conoscere qualità e difetti di tutte le cibarie, manipolarle a dovere, preservarle da putredine e muffe.

L’elenco che lo Scappi ne delinea spazia per l’intero scibile gastronomico, dall’olio, burro, lardo, strutto, fino ai formaggi, ai salumi e via via a tonno, anguille, caviale, bottarga, aringhe affumicate, pesci marinati, miele, zucchero, datteri, frutta secca, spezie, farine e vini.

Non meno rare sono le caratteristiche morali che si esigono da un maestro cuoco efficiente : dovrà essere infatti attentissimo nel sorvegliare i dipendenti, vigilante sull’igiene e buona aerazione dei locali, « pulito e netto della sua persona », ricco d’inventiva, svelto, paziente, educato, sobrio, modesto e, come se non bastasse, colmo di devozione per il « padrone ».

Quale gradino occupava nella scala sociale un personaggio di tante virtù e Lo Scappi ci da un quadro preciso degli emolumenti e appannaggi riconosciuti, solo escludendo il salario in moneta, che doveva venire pattuito caso per caso; in natura però gli spettava « la sua camera e il letto fornito, candele e scope, e legne il verno, nel modo che l’hanno i gentiluomini»; poi la «spesa per una cavalcatura » e, almeno una volta l’anno, un corredo di vestiti.

Sui dipendenti doveva avere autorità insindacabile, con diritto di « ricevere » (cioè assumere) « e mandar via aiutanti, pasticcieri e garzoni e qualunque altra persona che ha da star sotto la sua obbedienza ».

Quanto al vitto, gli spettavano anzitutto « tre libbre di pane al giorno», poco più d’un chilo, « e sei fogliette di vino, almeno del medesimo che si da puro alla tavola dei gentiluomini » ; per « companaggio », nelle grandi corti era uso assegnare al maestro cuoco « due libbre e mezza di carne di vitella o di castrato e un cappone overo una gallina il giorno appresso », cioè non consumati a tavola il dì prima, « e nei giorni di magro otto uova, e nelli dì quaresimali due libre e mezza di pesce ».

Infine gli spettavano per consuetudine le « regaglie », una parola tuttora in uso per il pollame, ma che allora serbava intero – se pur degradato a significare gli avanzi più vili della cucina – il significato feudale dei regalia medievali, gli appannaggi del re.

Spettavano dunque al cuoco « tutte le ceneri che si fanno in cucina», tranne quelle necessarie al bucato di tovaglie e strofinacci; « tutte le pelli di qualunque animali quadrupedi che saranno consignati in cocina, scorticati over fatti scorticare da essi mastri;… tutte le piume d’animali volatili che essi spiumeranno overo faranno spiumare;… tutti i piedi, colli e teste d’animali quadrupede… con tutte le giunte di carne e di pesce;… tutti gl’interiori e colli d’ogni animale volatile e tutti li grassi che caderanno dalli arrosti, con quelli che saranno di soverchio appresso alle carni grasse;… tutti gli ogli e grassi fritti, con le cotiche e rancidume di lardo ».

Dall’opulenza strabocchevole dei festini questo elenco apre subitamente uno spiraglio inquietante sul mondo degli « altri », gli esclusi, ai quali i servi privilegiati dei potenti vendevano le loro infime prede: grassi fritti e rancidumi, carnicci e interiora, colli e cotenne. E quei poveri famelici, costretti a diete ipocaloriche, esaltarono con « invenzioni » gastronomiche geniali quei lipidi degradati, quelle proteine di scarto : mentre i potenti, dispeptici e uricemici per abusi carnei, morivano stremati dall’adipe e dalla gotta, i diseredati elaboravano i capolavori della cucina plebea, quelli che nessun trattato si degnava di registrare: i fagioli con le cotiche, le costine con le verze in Lombardia, trippa e zampa in Toscana, il morsello di coratella in Calabria e così via.

Chiara, sistematica, succinta, l’Opera dello Scappi ebbe successo vasto e duraturo. Sei volte venne ristampata, fino a mezzo il ‘óoo39, quando anche la gastronomia italiana risentì del nostro generale declino e venne soppiantata sulle mense signorili da quella francese, cui pure aveva recato apporti determinanti attraverso i cuochi nòstrani che Caterina de’ Medici aveva condotto con sé da Firenze, imponendoli alla corte e al costume del regno.

Tale è la mole e la varietà di materie del libro, che qui m’è dato solo di farlo conoscere -come, dopo tutto, ben s’addice ad un manuale di cucina – per assaggi. Ne riproduco perciò integralmente le tavole incise, la sezione dedicata alle pietanze d’uova (per la leggerezza e praticabilità di molte ricette) e un saggio delle distinte per banchetti, l’uno di grasso per sessanta convitati con sessantanove portate differenti, l’altro di magro, in cui i commensali scendono a quarantadue e le portate, per ovvi motivi di austerità, si limitano a quarantanove.

Sono elenchi che parlano da soli e che ogni lettore vorrà analizzare e meditare da sé: che mangiassero tutto ciò che veniva servito è difficile credere, se non altro per mere ragioni di capienza gastrica, ma i precisi conteggi dei vassoi e delle porzioni individuali accertano che quel fiume di carni e pesci, salse e dolciumi, arrivava perlomeno fino al piatto di ogni singolo invitato, anche se non riusciva poi a passare tutto quanto attraverso il suo esofago.

Secondo i progetti dello scalco, in fatto di sole carni ciascun ospite avrebbe dovuto inghiottire 700 grammi di salumi e ripieni, quasi un chilo di castrato e capretto, oltre due chili di polpa, braciole e lingua di vitella, mezzo coniglio, mezzo cappone, quasi intera un’anitra giovane, un terzo di pollanca, due piccioni, una tortora, una starna, quattro beccafichi e, per finire sul leggero, mezza testa ripiena di capretto, una crostata di cervella e un pasticcio d’animelle.

Ciò spiega abbastanza chiaramente perché nel secolo dell’arte e della poesia tanta gente morisse di fame e altra, non poca, d’indigestione.

  1. In un « ruolo » degli addetti alla « famiglia » del Ghislieri prima del pontificato il suo nome venne registrato erroneamente (o mal trascritto) come « D. Francesco Brinoso, scalco segreto », accanto a un « Giovanni, cuoco segreto », clic venne riconfermato nell’ufficio dopo l’ascesa al soglio e del quale lo Scappi fu probabilmente successore o collega (cfr. G. moroni, Dizionario dì erudizione storico-ecclesiastica, Venezia, voi. XXIII, 1844, pp. 76-77).
    1. Le relazioni degli ambasciatori Veneti al Senato durante il secolo XVI, edite da alberi, Firenze, vol. X, 1857, pp. 172, 181, 200; L. von pastor, Storia dei papi, Roma, vol. VIII, 1924, p. 38.
    2. Secondo E. faccioli , vol. II, p. 15, il testo tradirebbe venature dialettali venete; ma occorre considerare che fu impresso a Venezia e che tali indizi affiorano soprattutto nelle didascalie delle tavole, ovviamente incise da artefici veneziani. Su Alessandro, Antonio e Carlo Luigi Scappi, tutti vissuti fra Cinque e Seicento, cfr. G. fantuzzi, Notìzie degli scrittori bolognesi, Bologna, 1781  segg., vol. VII, pp. 344-348; L. meissi, Dizionario biografico piacentino,  Piacenza, 1889, p. 459. Un Anton Maria Scappi pubblicò a Forlì nel 1672 un Dialogo aritmetico.
    3. Alessandro Vecchi la ristampò nel 1596, 1598, 1605, 1610 e 1622; sempre a Venezia il Combi la impresse un’ultima volta nel 1643, con tavole incise di bel nuovo con grande accuratezza.
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