Le piante medicinali Cap. II
Iris Calamo aromatico
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Iris
L’iris, o iride fiorentina, o ireos, o giaggiolo è – propriamente – Iris pallida che da taluni viene considerata varietà della più grande specie Iris fiorentina. Questa pianta è originaria della regione mediterranea, spesso coltivata, caratteristicamente a Firenze, appunto, e spesso anche inselvatichita, su muri, rupi, luoghi sassosi aridi e incolti. Per gli stessi suoi scopi può essere usata anche Iris germanica, originaria più o meno delle stesse zone e diffusa negli stessi habitat, di taglia leggermente maggiore, anche più frequente in coltivazione e espressamente coltivata nel veronese.
Da Iris germanica la nostra Iris pallida può essere facilmente distinta in base alla presenza di brattee scariose pergamenacee che ne avvolgono i bocci fiorali e per la tonalità dei fiori, di colore azzurro chiaro in Iris pallida, azzurro più scuro in Iris germanica.
Bisogna fare attenzione poi agli equivoci nomenclaturali: l’iris che si coltiva a Firenze, e che tra l’altro ne ha suggerito l’emblema, il “giglio”, è Iris pallida e non Iris fiorentina in senso lato.
La droga è fornita dal rizoma, che va decorticato e lasciato essiccare in modo che perda lo sgradevole odore che ha quando è fresco e ne assuma uno molto più gradevole. La droga è ricca di olio essenziale costituito soprattutto da acido miristico, la parte solida dell’essenza, detto anche “burro” o “canfora” o “concreto” di iris; inoltre acidi grassi, alcoli – linaiole, geraniolo, eugenolo – aldeidi, e infine chetoni noti sotto il nome specifico di “ironi”, ai quali è dovuto principalmente il profumo di violetta dell’olio essenziale.
Le proprietà farmacologiche dell’iris sono molteplici.
È dotato di blanda azione espettorante o, a più alte dosi, emetica. Può essere usato come correttivo nella tecnica galenica e nell’industria liquoristica. Particolarmente viene poi usato nell’industria dei cosmetici (ciprie, dentifrici, profumi).
Un caratteristico uso, un tempo in voga nella medicina popolare, era quello di dare da masticare ai lattanti afflitti dai disturbi della dentizione un rizoma decorticato a mo’ di tettarella.
Calamo aromatico
Il calamo aromatico (Acorus calamus) è una pianta erbacea palustre appartenente alla famiglia delle Aracee. Originario dell’India, è ora diffuso in molti paesi tropicali e temperati ed anche da noi è reperibile, qua ‘e là, lungo i corsi d’acqua e nelle paludi della Pianura Padana e di talune località dell’Italia centrale. Fiorisce in primavera ma moltissime piante, sia spontanee che coltivate, non generano semi sicché la sua riproduzione avviene soprattutto agamicamente. La droga è data dal rizoma – Calami aromatici rhizoma – che andrebbe raccolto in autunno, mondato e decorticato.
Contiene olio essenziale – con asarone, eugenolo, terpeni – e numerose altre sostanze, molte delle quali non ancora ben conosciute o sufficientemente indagate. Il calamo aromatico gode di numerose proprietà. In Italia è usato soprattutto, anche in liquoreria, come correttivo, amaro-aromatico ed eupeptico. Nella medicina indiana viene vantaggiosamente usato nella cura di numerosi disturbi di origine nervosa (insonnia, isterismo, nevrastenia) ed anche come sedativo, analgesico e antispasmodico. Gli sono riconosciute anche proprietà carminative, antibatteriche e antiprotozoarie.
Orchidee
Chi ha avuto la ventura di visitare l’Asia minore, la Grecia o la lontana Russia avrà certamente sentito parlare del salep o, se la fortuna lo ha assistito, avrà avuto modo di assaporare ciò che si cela dietro questa misteriosa parola, sotto forma di gelati, bibite rinfrescanti, dolci, minestre. Che cosa s’intende però con questo termine, o, meglio ancora, con tale sostanza che non solo è alla base, come abbiamo detto, di alcune ricette alimentari, ma che possiede anche ben precise proprietà farmacologiche?
Ebbene, con salep s’intende una sostanza alimentare oppure una droga (se si considera il salep dal punto di vista farmacologico) costituita dai tuberi di alcune specie di orchidee (raccolti quando la pianta fiorisce, quando sono cioè ben rigonfi e pieni di elementi nutritizi) che vanno immersi in acqua bollente, per arrestarne la vitalità, e poi messi a seccare infilati a mo’ di grani di rosario.
Quando ne venga richiesto l’uso si polverizzano e se ne ricava una specie di fecola costituita in percentuale da circa la metà di una sostanza mucillaginosa, da circa un terzo di amido e il resto da proteine, zucchero e da tracce di cumarina che le conferiscono un leggero profumo.
L’uso del salep come commestibile è antichissimo, perfino anteriore a Teofrasto e a Dioscoride, e turchi e persiani ne erano, come del resto lo sono oggi, dei buoni consumatori. Bisogna giungere però al XV secolo perché anche l’Europa conosca questa polvere, ma le diverse consuetudini alimentari degli abitanti del nostro continente ne limitano assai la diffusione come sostanza alimentare, favorendone nel contempo l’affermazione in campo medicinale.
L’alta percentuale in mucillagine contenuta nel salep lo rende assai adatto per preparare decotti emollienti efficaci nel curare infiammazioni della mucosa gastro-enterica, sia per via orale che rettale. Un tempo, ora non più, l’impiego del salep era consigliato nei casi più gravi di diarrea infantile, in quanto non solo ne venivano sfruttate le proprietà sedative, ma soprattutto contemporaneamente quelle nutritive, anche se in realtà a quest’ultime veniva spesso data un’importanza eccessiva.
Come si è lasciato intendere poco sopra, l’uso commerciale su vasta scala era, ed è tuttora, prerogativa di alcune popolazioni dell’Asia minore o ad essa vicine. Esclusivamente come sostanza medicinale il salep venne importato in Europa e quindi anche nel nostro paese fin tanto che non ci si accorse che alcune orchidee della nostra flora e sufficientemente frequenti nei prati, nei boschi, dal livello del mare all’orizzonte montano, producevano tuberi dai quali era possibile ricavare dell’ottima droga e con minor spreco di denaro.
Sono infatti parecchie le orchidacee nostrane che producono tale sostanza, come Orchis morto, Orchis militaris, Orchis purpurea e altre ancora appartenenti al genere Ophrys o come Aceras anthropophora che contiene principi sedativi. Per concludere c’è da aggiungere che il salep ha goduto per lungo tempo presso gli orientali la fama di afrodisiaco, la qual cosa era certamente legata alla forma dei tuberi delle orchidee che vagamente ricordano i genitali maschili.
In realtà in tutto questo non vi è alcunché di vero; si trattava evidentemente di un pregiudizio radicato nella mente di quei popoli che cercavano in tutti i modi di potenziare, anche con l’aiuto del salep, facoltà amatorie, in particolare virili, che costituivano valori basilari della loro civiltà, ma che non potevano certamente essere stimolate con una droga del tutto innocua.
Rosa di macchia Olivello spinoso Ribes nero
La rosa di macchia e l’olivello spinoso sono due arbusti con proprietà medicinali ben diverse, pur avendo in comune la caratteristica di possedere frutti con una percentuale elevata di acido ascorbico, vale a dire di vitamina C. La storia di questa e delle altre vitamine è piuttosto recente; risale infatti a una sessantina di anni fa, anche se la loro presenza in alcuni alimenti era stata intuita già da qualche secolo.
Fu il polacco Punk nel 1911 a indicare con il termine vitamine sostanze notevolmente complesse che, pur trovandosi sia nel regno vegetale quanto in quello animale in quantità assai ridotte, svolgono un ruolo eminente negli organismi animali e quindi nell’uomo perché regolano funzioni vitali di capitale importanza.
Gli organismi animali, tuttavia, non sono in grado di sintetizzare le vitamine, ma sono costretti a introdurle attraverso gli alimenti vegetali, direttamente o sotto forma di provitamine che solo in un secondo tempo possono venir trasformate in vitamine. Quelle attualmente individuate sono una ventina, e possono venir inquadrate in due grandi gruppi principali: quelle idrosolubili, vale a dire solubili in acqua, che comprendono la vitamina C e il complesso B, e quelle liposolubili, cioè solubili nei grassi e nei loro solventi, che comprendono le vitamine A, D, E e K.
L’importanza della presenza contemporanea nell’organismo umano, o comunque animale, di più d’una vitamina è confermata dall’insorgere di gravi disturbi di varia natura dovuti alla carenza (avitaminosi e ipovitaminosi) di vitamine tanto che le stesse vengono indicate in base alla funzione che presiedono.
Cosi la vitamina A è detta antixeroftalmica, dell’accrescimento e antinfettiva; la B, antineuritica e antiberiberica, la PP antipellagrosa, la D antirachitica, la K antiemorragica e la C antiscorbutica.
Agrumi, bacche eduli, meloni, peperoni, pomodori, cavoli verza, nonché insalate e verdure in genere sono le principali fonti di vitamina C, la quale, tuttavia, essendo termolabile e idrosolubile, si perde in grande quantità con la cottura a cui viene sottoposta gran parte delle verdure prima di essere consumate.
Restano così in lizza quali fornitori di vitamina C gli agrumi e molta della frutta che viene gustata allo stato fresco: albicocche, fragole, ciliegie, fichi, lamponi, pere, mele, pesche ecc. A ciò sia ora consentito di aggiungere qualcosa di più modesto e meno saporito dal punto di vista alimentare, ma altrettanto valido per quanto riguarda quello terapeutico. Alludiamo cioè ai frutti, o meglio ai ricettacoli fruttiferi, della rosa di macchia (Rosa canina) e ai frutti dell’olivello spinoso (Hippophae rbamnoides) della famiglia delle Eleagnacee.
Di questi due arbusti certamente quello che più facilmente ci capita di incontrare è la rosa di macchia, che ci ha dato anche l’occasione di raccogliere i grandi fiori che si schiudono da maggio a luglio; meno frequente anche perché meno vistoso è l’olivello spinoso, tipico rappresentante della flora dei greti dei corsi d’acqua dell’Italia boreale e centrale.
Un cenno per finire al ribes nero (Ribes nigrum), le cui foglie e frutti contengono principi attivi efficaci per curare gotta e reumatismi, esplicando inoltre azione tonica e cordiale, diuretica, rinfrescante e depurativa.
Tamaro Asaro
Tamus communis è una dioscoreacea nota volgarmente come tamaro, vite nera, sigillo della madonna, radice vergine. Di questa pianta, diffusa in tutto il bacino mediterraneo e nell’Europa media, si sfruttano i principi attivi che sono contenuti nella radice allungata, carnoso-tuberosa e nera, uno dei quali, appartenente al gruppo delle saponine, esplica in misura notevole azione emetica e purgativa.
Se la nostra pianta però in erboristeria è pressoché dimenticata, un discreto interesse, legato alla medicina popolare e avallato del resto da una lunga esperienza, suscita invece come essenza con spiccate doti vulnerarie, capace cioè di guarire con [[sorprendente velocità contusioni di una certa gravita. Per questo motivo ben si adatta quindi l’appellativo che le donne di campagna francesi hanno attribuito al tamaro, cioè herbe-aux-femmes-battues.
Fino a qualche lustro fa si diceva che Asarum europaeum, asaro, baccaro o erba renella in italiano, era un discreto emetico, capace cioè di provocare il vomito, ma la sua richiesta era pressoché nulla anche perché la pianta, una volta raccolta, perdeva in breve tempo ogni carica terapeutica.
Quasi contemporaneamente però si metteva in rilievo che due erano le principali sostanze attive dell’asaro, l’asarone ed un olio essenziale. Il primo, volatile e che scompare in gran parte col disseccamento, è facilmente eliminabile e non è affatto velenoso, agisce da emetico e secondariamente da espettorante; il secondo, l’olio essenziale, al contrario è tossico, può procurare nefrite, metrite, iperemie degli organi interni e perfino la morte. Tutto ciò ne ha sconsigliato l’uso a livello di rimedio popolare. L’asaro è una aristolochiacea diffusa nell’Europa centrale e meridionale e nell’Asia occidentale.
I greci, anche se non dal punto di vista farmacologico, dovevano conoscere l’asaro, la cui etimologia, di chiara origine greca, sta ad indicare press’a poco che questa specie non poteva entrare a far parte di quel gruppo di piante destinate ad intrecciare ghirlande di fiori, motivo che ricorre anche presso i latini per i quali si esprime Plinio, che in un passo della sua voluminosa opera afferma: « Asaro» inverno vocitari, quoniam in coronis non addatur».
Le parti dell’asaro che interessano la farmacologia sono in primo luogo il rizoma, che va raccolto in primavera o meglio ancora in autunno, e poi le foglie, che vanno raccolte in aprile-agosto. L’impiego di asaro sotto forma di polvere era, come si è detto, consigliato un tempo come emetico efficace ed ottimo espettorante in dosi ridotte.
Alla luce di recenti scoperte, dovute perlopiù ad autori polacchi, verrebbe scoraggiato l’uso dell’asaro come emetico, fermo restando, anzi notevolmente avallato, quello dell’asaro come espettorante. Si è arrivati infatti a dimostrare che l’azione emetica è dovuta perlopiù all’olio essenziale, a cui abbiamo accennato poco sopra, che non agirebbe « direttamente sul centro del vomito, ma perifericamente sulle terminazioni emetico-sensitive della mucosa gastrica ».
Ciò che ha indotto a sconsigliare l’asaro come emetico è l’elevata dose di olio essenziale che dovrebbe venir somministrato, olio che può dar luogo a gravi disturbi in quegli organi che provvedono all’eliminazione dello stesso, in modo particolare reni e polmoni. Dosi assai ridotte sono invece sufficienti per esaltare le doti espettoranti dell’asaro, assai indicato nelle bronchiti secche o croniche e nei casi di laringo-tracheiti.
Elleboro nero Elleboro verde Pie di gallo
L’elleboro nero, o rosa di Natale (Helleborus niger) è una pianta erbacea perenne a rizoma strisciante munito di poche foglie, lucide e cuoiose; appartiene alla famiglia delle Ranuncolacee. Fiorisce durante l’inverno, da dicembre a febbraio, spesso anche nei giorni che precedono il Natale, donde il nome volgare.
Gli scapi fioriferi portano 1-2 grandi fiori bianchi o leggermente venati di rosso all’esterno, inodori. È una pianta dei luoghi boscosi montani dell’Europa centro-meridionale e nel nostro paese è reperibile, qua e là, nei boschi, soprattutto sulle Alpi ma talora anche lungo la dorsale appenninica.
La droga è data dal rizoma. Contiene lipidi, tracce di olio essenziale, resina, un principio amaro e soprattutto due saponine, l’elleborina e l’elleboreina ed inoltre un glucoside detto ellebrina o ellebroside. Si tratta di pianta velenosa che va usata con grande circospezione e che possiede comunque svariate proprietà. La polvere del rizoma è dotata di proprietà starnutatorie; l’elleboreina possiede proprietà cardiotoniche; l’elleborina agisce come drastico e narcotico ed anche come emetico ed emmenagogo.
L’elleboro verde
(Helleborus viridis) è pure una pianta erbacea perenne propria dei boschi, delle macchie, delle siepi, diffusa nell’Europa occidentale e centrale, piuttosto comune anche nel nostro paese in diverse varietà tra le quali la boccomi, propria dei Balcani e da taluni ritenuta anche buona specie, diffusa in particolare in Istria, Friuli e poi lungo la penisola fino in Sicilia.
Produce in abbondanza fiori verdastri retti da un fusto fiorifero più lungo che nel niger, la fioritura dura da dicembre a marzo-aprile. Oltre alle sostanze già elencate per l’elleboro nero, esso contiene alcuni alcaloidi come la spintillamina, la celliamina e la sprintillina. Anche l’elleboro verde ha sostanzialmente le stesse proprietà dell’elleboro nero: usato anch’esso un tempo come cardiotonico, emetico, purgativo e antielmintico, è oggi caduto piuttosto in disuso a causa della sua velenosità.
Entrambi furono poi anche variamente utilizzati nella medicina veterinaria.
Analoghe proprietà, soprattutto purgative e antielmintiche, possiede anche l’elleboro fetido, Helleborus foetidus, più o meno con la stessa distribuzione del viridis, munito di un fusto persistente e ben evidente e di foglie più coriacee e finemente incise. Emana dai suoi tessuti verdi uno sgradevole odore che ne giustifica il nome.
Pie di gallo
Assai caratteristico è il pie di gallo (Eranthis biemalis), piccola pianta erbacea munita di rizoma tuberoso. Nel breve volgere di un paio di mesi, o anche meno, la pianta vegeta, fiorisce e fruttifica. Produce – anche nel bel mezzo dell’inverno – piccoli fiori giallo-dorati. È diffuso in Europa e naturalizzato nell’America settentrionale; nel nostro paese è reperibile soprattutto nei campi e ai bordi dei fossati e dei ruscelli in tutta la penisola.
La pianta sembra contenere gli stessi principi attivi del genere Helleborus (col quale del resto ha molta affinità visto che Linneo l’aveva primieramente inclusa in questo stesso genere) e può essere usata con le stesse indicazioni (e precauzioni) degli ellebori ma si tratta di pianta ancora poco studiata.
Assenzio Melograno Corallina Chenopodio antielmintico
Fama di pianta con proprietà amaro-toniche, eupeptiche, febbrifughe e in minor misura antielmintiche e emmenagoghe si è guadagnata Artemisia absinthium, l’assenzio, composita diffusa in Europa, parte dell’Asia, Africa settentrionale e altrove naturalizzata.
I principi attivi di questa pianta dal forte odore aromatico sono contenuti nelle foglie e nelle sommità fiorite: un olio essenziale, l’absintolo, il tuiolo che viene esterificato in acido acetico, valerianico e palmitico, sostanze amare tra cui l’absintina e ancora le vitamine C e BÓ.
Melograno
Bella pianta ornamentale sia per i fiori rosso scarlatti sia per i frutti, discreto interesse dal punto di vista alimentare, il melograno, Punica granatum delle Minacce, si è tramandato fin dall’antichità una buona fama per le proprietà medicinali. Originario forse della Persia, questo arbusto o alberello presso egizi, greci e romani era legato a riti e cerimonie religiose.
Di pari passo in quei popoli si affermò l’uso del melograno come pianta medicinale e la sua azione antielmintica ci è segnalata da Dioscoride, Plinio e Gelso fino a giungere all’inglese Barthelemy, vissuto nel XIII secolo. Passati alcuni secoli dutante i quali il melograno vive, per cosi dire, nell’ombra, all’inizio dell’Ottocento venne nuovamente usato come pianta medicinale con proprietà vermifughe e in secondo luogo, secondo quanto appreso dalla Cina, astringenti nella cura della dissenteria e della diarrea.
La droga, costituita dalla corteccia della radice e in minor misura dal pericarpo del frutto e dalla corteccia del fusto, contiene numerosi alcaloidi: tra essi la pelletierina agisce da vermifugo. I vermi, quelli del genere Taenia e Botriocephalus, mediante infuso, pozione o decozione a base di corteccia di radice di melograno rimangono paralizzati; sarà sufficiente ingerire un buon purgante per eliminarli eompletamente.
Corallina
Proprietà antielmintiche possiede pure Corallina officinali*, la corallina, alga rossa abbastanza frequente sulle coste del Mediterraneo e dell’Atlantico e particolarmente efficace contro Ascaris e Oxyuris. Il suo uso però venne più o meno a cadere alla fine del 700 quando fu sostituita da una mescolanza di altre alghe, almeno una quarantina, molto più comuni e con la medesima efficacia e che nel complesso presero il nome di corallina grigia o muschio di Corsica.
La droga è costituita dall’insieme dei talli delle alghe che vanno ben ripuliti da tutte le impurità (detriti di rocce, granelli di sabbia, piccole conchiglie). I principi attivi sarebbero dovuti alla gelatina, contenuta in proporzione del 60% nei talli, tra i cui componenti sembra vi siano modeste quantità di bromo, iodio, qualche traccia di arsenico e pentosani. Si somministrasotto forma di infuso o di decozione.
Chenopodio
Discreta azione antielmintica possiede pure Chenopodium ambrosioides, il chenopodio antielmintico, originario dell’America, nella varietà appunto anthelminticum, del quale si usano le sommità fiorite.
Felce maschio Santolina Partenio
Si può dire che attualmente l’estratto etereo di felce maschio (Dryopteris filix-mas), una polipodiacea piuttosto comune nell’emisfero boreale, è uno dei migliori tenifughi ed è forse quello più richiesto. La felce maschio era conosciuta fin dall’antichità, poi, come spesso è avvenuto per altre piante con spiccate proprietà officinali, cadde in disuso e conseguentemente nell’oblio più assoluto.
Solo in epoca relativamente recente è ritornata in auge tanto da trovarsi nel nostro tempo in una posizione di rilievo nella farmacologia moderna. Vediamo ora un po’ più da vicino la sua storia Gli autori classici, fonte preziosa di ogni genere di notizie, soprattutto naturalistiche, parlano di questa pianta più o meno allo stesso modo: così Teofrasto, Dioscoride e Plinio presso i romani mettono in evidenza le proprietà antielmintiche.
Si diceva che il rizoma della felce maschio misto al miele era assai efficace per combattere la tenia, mentre per debellare altri piccoli vermi era necessario unirlo al vino e alla farina d’orzo. Poco o nulla si sa del periodo medievale e così bisogna arrivare al secolo XVIII per sentir parlare con una certa frequenza della felce maschio: sembra anzi che Luigi XV di Francia e Federico II di Prussia abbiano pagato cifre favolose per acquistare specifici in cui entrava tale droga.
Il periodo d’oro della felce maschio ebbe inizio però all’inizio del XIX secolo quando due fratelli farmacisti in Ginevra consigliarono l’uso dell’estratto etereo che si ricava dai rizomi freschi, anziché la polvere dei rizomi stessi.
Tale consiglio si dimostrò assai assennato e nello stesso tempo la droga, sotto questa forma, si affermò con tutta la sua efficacia. Come si è accennato.
la parte farmacologicamente attiva è rappresentata dal rizoma che va raccolto in estate, stagione in cui sembra maggiormente dotato di principi attivi medicinali. Viene considerato un ottimo antielmintico che agisce in modo particolare sulle tenie e sul botriocefalo. Il suo impiego, soprattutto sotto forma di estratto etereo, dev’essere assai limitato nel tempo, qualche giorno al massimo, va evitato nell’età infantile, e comunque condizionato da una prescrizione medica. Dosi eccessive infatti possono essere causa di forme di avvelenamento anche gravi.
Santolina
La santolina, o abrotano femmina (Santolina chamaecyparissus), è una composita a diffusione mediterranea. Si trova spontanea nei luoghi sassosi di pianura e di collina dell’Italia centro-meridionale.
Oltre a virtù antielmintiche possiede alcuni principi attivi che esplicano modeste azioni antispasmodiche, stomachiche, emmenagoghe e vulnerarie.
Vengono o meglio venivano usate in medicina le sommità fiorite e i semi. Proprio da questi ultimi si ricava una polvere vermifuga, la cui richiesta però attualmente è pressoché nulla. Alla santolina può essere accomunato per alcune proprietà terapeutiche Chrysanthemum parthenium, il partenio o matricaria come viene chiamato volgarmente.
I suoi capolini infatti contengono principi attivi che esplicano un’azione emmenagoga e vulneraria. Inoltre il partenio viene impiegato spesso come succedaneo della camomilla nei casi di mestruazioni difficili: per questo motivo può essere causa di possibili e abbastanza facili sofisticazioni della camomilla stessa.
Gelso nero Carrubo Frassino da manna
II gelso nero (Morus nigra), appartenente alla famiglia delle Moracee, è un albero di media taglia originario del medio ed estremo Oriente, un tempo estesamente coltivato nelle nostre regioni, insieme al gelso bianco, per l’allevamento del baco da seta.
Se ne usano i frutti, che contengono zuccheri e acidi organici, con i quali si confeziona uno sciroppo – Syrupus mororum – ad azione espettorante e blandamente lassativa, che ha il grosso pregio di poter essere assunto anche ripetutamente. Le foglie hanno invece azione blandamente astringente e, si ritiene, anche ipoglicemizzante.
Il carrubo
(Ceratonia siliqua) è un albero di discreta taglia a foglie cuoiose e persistenti appartenente alla famiglia – intesa in senso lato – delle Leguminose. Originario dell’Asia minore, è ampiamente coltivato nelle zone costiere dell’Italia meridionale e insulare, ove talora si trova anche inselvatichito. Il nome volgare del carrubo deriva dal persiano harubu, mentre il nome scientifico del genere, Ceratonia, è dovuto alla somiglianzà più o meno reale che i legumi hanno con un corno.
Anticamente i semi del carrubo venivano usati come unità di peso per oro e gioielli – i carati – e questa unità di misura è rimasta tuttora nell’uso.
La droga è data dai frutti, che tra l’altro trovano impiego nell’alimentazione del bestiame, in particolare degli equini, e più raramente in quella umana. Essi contengono abbondante saccarosio – tanto che potrebbe anche essere estratto industrialmente – acidi organici, tannino, mentre i semi all’analisi chimica rivelano la presenza di zuccheri complessi quali il mannano e il galattano.
Contrastante è l’azione del carrube: se è vero che la decozione del frutto ha proprietà lassative, è anche vero che la farina ha una pregevole azione antidiarroica dovuta all’esplicazione di un meccanismo fisico (effetto meccanico-adsorbente), chimico (potere tampone) e chimico-fisico (attività antitossica). La farina di semi, inoltre, aggiunta al latte, è assai indicata nel trattamento del rigurgito e del vomito dei lattanti.
Il frassino da manna,
o orniello (Fraxinm ornus) è un alberetto o più frequentemente un grosso cespuglio appartenente alla famiglia delle Oleacee. È piuttosto comune nei boschi aridi e assolati del piano collinare e montano. Viene coltivato per estrarvi la “manna” soprattutto in Sicilia, nei dintorni di Palermo. D’estate si incide la corteccia delle giovani piante con una sorta di roncola, la falce “mannarola”: ne sgorga un liquido – la manna appunto – che rapprendendosi assume un aspetto amorfo zuccherino.
Tra le diverse qualità di manna in commercio la più pregiata è quella rappresa in masserelle allungate dette “cannoli” o “cannelle” (“manna cannellata”). La manna è particolarmente ricca di una sostanza detta impropriamente “zucchero di manna” o “mannite” che è però, chimicamente, un alcole (mannitolo).
La mannite si usa come blando purgante, rinfrescante, regolatore intestinale. Può essere facilmente somministrata anche ai bambini sciogliendola nel latte; associata ad altre droghe – la sena, ad esempio – serve a preparare pozioni purgative più energiche.
Verbasco Lino Tamarindo
Sotto il nome di verbasco, o tasso barbasse, si includono almeno tre specie e cioè Verbascum thapsus, Verbascum phlomoides e Verbascum thapsiforme appartenenti alla famiglia delle Scrofulariacee. Sono piante erbacee biennali, caratterizzate, nel primo anno, da una grossa rosetta di foglie estremamente tomentose e vellutate (e che venivano usate per sofisticare la digitale) e nel secondo, con fioritura primaverile ed estiva, dal grande fusto fiorifero, talora foggiato a candelabro e stracarico di fiori giallo-oro. Sono assai comuni negli incolti, nei rudereti, ai bordi delle strade.
La droga è data dalle foglie e dai fiori. Questi ultimi contengono una saponina, acido tapsico, saccarosio, olio essenziale e, soprattutto, mucillagini. Le foglie, oltre alle mucillagini, contengono principi amari, cere e resine. Sotto forma di pozioni o clisteri il verbasco si usa come antiinfiammatorio della mucosa intestinale. Gli impacchi di decotto di fiori o di cataplasma di foglie esplicano azione antiinfiammatoria locale.
Il lino
(Linum usitatissimum) è una pianta erbacea annuale appartenente all’omonima famiglia delle Linacee (ma secondo altri va ascritta alle Geraniacee), originaria dell’Europa meridionale^ e ampiamente coltivata per le fibre tessili che si ricavano e per i sèmi che forniscono abbondante olio siccativo. Per scopi terapeutici si usano i semi, ovoidali e caratteristicamente lucidi, che contengono soprattutto olio e mucillagini. Per combattere la stitichezza e come rinfrescante delle mucose intestinali si usano interi, a cucchiaiate, previa macerazione.
Ancora più usata per fare cataplasmi al petto e all’addome o per risolvere raccolte purulente superficiali è la farina, spesso associata alla senape. L’olio, largamente usato nell’industria delle vernici, può servire come lassativo o come coadiuvante nei clisteri.
Il tamarindo
(Tamarindus indica) è un grande albero (20-30 m) originario dell’Africa tropicale e ora estesamente coltivato. Malgrado il nome, è molto dubbio che sia specie spontanea dell’India, ove probabilmente si è inselvatichito.
Appartiene alla grande famiglia delle Leguminose e più specificatamente alle Cesalpiniacee. La droga è data dalla polpa dei baccelli – Tamarindi fructus – ed è una pasta che contiene inglobate scaglie pergamenacee e “fili” che altro non sono che fasci vascolari. Questa polpa contiene in elevata percentuale acidi organici – soprattutto tartarico e secondariamente malico, citrico, ossalico – e inoltre zuccheri e pectine.
Il tamarindo era noto da gran tempo nelle regioni africane, ma non sembra che lo fosse nei paesi dell’antichità classica. Gli arabi lo diffusero in Europa portandolo dall’India – ecco dunque spiegato il tamar hindi, il “dattero” dell’India – e sono arabi i primi medici che ne riconobbero l’azione emolliente e lassativa. Il tamarindo era noto alla scuola medica salernitana e a Pier Andrea Mattioli il quale purcadendo nel solito equivoco del “dattero” – si credeva infatti che il tamarindo fosse dato da una palma – sapeva e scriveva che « fa muovere il corpo ».
Attualmente il tamarindo viene usato soprattutto per preparare ottime bevande, gradevolmente acidule e dissetanti, ad azione rinfrescante e, a dosi maggiori, come blando lassativo, specie se associato ad altre droghe.
Corbezzolo Galle di quercia Salvastrella
II corbezzolo (Arbuttis unedo) appartiene alla famiglia delle Ericacee ed è un grosso arbusto (ma raggiunge talvolta anche le dimensioni di un alberello) tipico esponente della macchia mediterranea e pertanto diffuso nel nostro paese e nei paesi circummediterranei – spingendosi però fino alle Canarie e all’Irlanda – dove alligna questa ben nota e caratteristica formazione vegetazionale. Potrebbe essere vantaggiosamente coltivato a scopo ornamentale, per la bellezza del fogliame e dei frutti, anche al nord in posizioni bene esposte.
È pianta carica di significati simbolici: il tricolore nazionale deriva dai colori del corbezzolo: verdi le foglie, bianchi i fiori, rossi i frutti; su una barella di rami fioriti di corbezzolo fu adagiato, morente, il giovinetto eroe Pallante. Le foglie, verdissime e cuoiose, sono ricche di tannino e inoltre contengono gaulterina e arbutina.
Il corbezzolo, come altre Ericacee, fra cui mirtillo rosso, uva ursina, Gaultheria procumbens, può essere usato come antisettico urinario e antireumatico. Il contenuto in tannino delle foglie, poi, ne consiglia l’uso come astringente intestinale. Nella medicina popolare delle regioni mediterranee, infatti, era abbastanza diffuso l’uso del decotto di foglie di corbezzolo come regolatore intestinale. Anche dai frutti, aciduli e dolciastri, si possono ricavare confetture dotate di proprietà astringenti.
Le galle,
o cecidi, sono curiose formazioni determinate dalle punture di certi insetti (generalmente imenotteri) sui tessuti di varie piante: querce, faggio, rosa canina. Nella fattispecie le galle di quercia, o noci di galla, sono provocate dalle punture di insetti del genere Cynips. Vi sono galle perfettamente sferiche (provocate da Cynips kollari, dette galle marmorine); altre dotate di una sorta di corona (e sono indotte da Cynips quercus-tozae); altre ancora (knopperne, gallone d’Ungheria o del Piemonte) di forma più complessa, detta a testa di maiale, sono provocate da Cynips calicis.
In certe farmacopee sono iscritte le galle d’Oriente, o di Aleppo, provocate da Cynips tinctoria su Quercus lusitanica. Le galle sono assai ricche di tannino (fino al 40% nelle più pregiate tra le nostrali, quelle indotte da Cynips calicis) e quindi dotate di proprietà astringenti. Si usano anche nell’industria degli inchiostri e dei coloranti.
La salvastrella,
o pimpinella, o bibinella (Poterium sanguisorba, o Sanguisorba minar) è una pianta erbacea perenne di modesta taglia appartenente alla famiglia delle Rosacee e ad ampia diffusione nell’emisfero settentrionale: Europa, Asia, Africa settentrionale. Nel nostro paese è abbastanza comune nei prati, nei pascoli, negli incolti erbosi e anche su rocce, muri, macerie.
La droga è data dalle foglie o dalla pianta intera che emana un caratteristico odore aromatico. Contiene, analogamente a Poterium officinale, che cresce nelle Alpi e sporadicamente negli Appennini, tannino e una saponina. Entrambe queste specie hanno azione astringente intestinale e carminativa. Le giovani foglie di salvastrella, delicatamente aromatiche, sono un delizioso additivo per insalate miste primaverili.
Ortica bianca Salcerella
Sotto il nome, assai improprio per le confusioni sistematiche che potrebbe ingenerare, di ortica bianca si intende definire Lamium album (per il quale occorrerebbe invece rafforzare l’altro termine volgare di lamio bianco), pianta erbacea perenne di modesta taglia che, botanicamente, non è affatto una Ortica ma una Labiata.
È una pianta diffusa nei prati e negli incolti erbosi freschi in Europa e Asia; anche nel nostro paese è presente negli stessi habitat con maggiore frequenza a nord del Po. La droga è data dall’erba intera fiorita, o secondo altri autori dalle sole corolle. La pianta, nel fresco, emana odore sgradevole che perde però con l’essiccamento. Fiorisce in primavera e poi ancora durante l’estate.
Contiene un glucoside, una §aponina, olio essenziale, tannino, sostanze mucillaginose e un alcaloide detto lamiina. Si usa come astringente sia intestinale, ad esempio in casi di diarrea o di altri consimili disturbi dell’apparato digerente, sia come emostatico e astringente uterino per la cura di vari disturbi (leucorrea, amenorrea, annessiti).
Può essere vantaggiosamente usata anche nella terapia degli inconvenienti derivanti, nelle persone anziane, da cattiva circolazione nell’apparato urinario con conseguenti disturbi specialmente alla prostata e all’uretra.
Per uso esterno l’ortica bianca agisce come vulnerario e risolutivo in casi di scottature, varici, ulcerazioni. A seconda delle varie necessità si usano polveri, infusi o sciroppi. Nella pratica capita di vedere richiesto Lamium album anche per uso veterinario, ad esempio per la cura di infezioni intestinali in allevamenti di piccioni.
La salcerella,
o salicaria (Lytbrum salicaria) è una grossa pianta erbacea a fusti annuali ma a base perenne, assai diffusa nelle zone temperate e assai comune nel nostro paese nei luoghi umidi: paludi, lungo i fossati, bordi di stagni o maceri. Appartiene alla famiglia delle Litracee.
Fiorisce a lungo nell’estate, fino all’autunno spesso anche inoltrato e la droga è data dalle sommità fiorite. Tutte le parti verdi della pianta, comunque, contengono un glucoside, la litrarina, tannino, pectine. Appunto il contenuto in tannino giustifica le ben note proprietà astringenti della salcerella, conosciuta fin dall’antichità classica tanto che fu usata in numerosissimi casi anche da Dioscoride.
Cadde poi in disuso nei secoli successivi fino a che nel XVIII secolo ritornò nella pratica medica soprattutto come antidiarroico e antidissenterico. Recentemente le è stata riconosciuta anche una proprietà antibatterica – che torna assai utile nella terapia delle dissenterie – ed è stata inoltre riconosciuta la sua efficacia nella cura di forme di dissenteria dovute ad infezione amebica. Per uso esterno può essere adoperata come collutorio per irrigazioni vaginali e anche come emostatico in caso di epistassi.
L’industria erboristica ne prepara degli estratti che possono entrare (con lo sciroppo di tormentilla ed altri componenti) in una pozione antidiarroica di indubbia efficacia.
Cocomero asinino Robbia Spino cervino Frangola
Le proprietà purgative del cocomero asinino, o elaterio (Ecballium elaterium) sono conosciute da lunghissimo tempo: così i seguaci di Ippocrate usavano foglie e radici di questa pianta, Teofrasto prima e Dioscoride poi parlano nei loro scritti delle sue virtù sia purgative che emmenagoghe.
Nome generico, Ecballium, e aggettivo specifico, elaterium, significano entrambi lanciare fuori, spingere fuori; il primo è riferito al frutto che a maturità lancia lontano i semi, il secondo allude alla proprietà medicinale prevalente, appunto quella purgativa. Di questa cucurbitacea, che è a diffusione mediterranea sebbene si spinga a oriente fino all’India, la medicina usa il sedimento del succo dei frutti immaturi che costituisce la droga e che comunemente viene indicata con il nome di elaterio bianco o elaterio inglese, sostanza pulverulenta di colore giallastro.
Il principio attivo contenuto è l’elaterina, assai amara e acre; inoltre sono presenti amido, fitosterolo e acidi grassi. Il cocomero asinino va somministrato con molta prudenza perché la sua azione è molto energica. Pochi milligrammi in eccesso sono capaci di provocare nausea, vomito e diarrea.
La robbia
(Rubia tinctorum) un tempo era coltivata per l’estrazione dell’alizarina, sostanza appartenente al gruppo degli antrachinoni e impiegata industrialmente come colorante. Quando l’alizarina cominciò a essere prodotta artificialmente, la robbia venne quasi dimenticata. In medicina sono usate – oggi invero molto limitatamente – le radici e anche il rizoma, che per le loro proprietà di aumentare la secrezione biliare e di stimolare la peristalsi intestinale esercitano alla fine un’azione purgativa. La robbia inoltre ha proprietà diuretiche e astringenti.
Lo spino cervino
(Rhamnus catbartica), appartenente alla famiglia delle Ramnacee, è un arbusto spinoso dell’Europa, dell’Asia occidentale e dell’Algeria. La parte impiegata in medicina è costituita dalle bacche, che possono essere usate sia allo stato fresco che secche e vanno raccolte in autunno inoltrato quando raggiungono la maturità.
Esse svolgono azione purgativa drastica, tanto da poter procurare oltre a vomito e dolori addominali anche scariche diarroiche e disturbi gastro-intestinali. Vanno perciò prese con parsimonia, aumentando cautamente la dose a seconda se si vuole combattere un’abituale stitichezza o se si vuole ottenere un buon effetto purgativo.
In tal caso eventuali dolori addominali possono essere alleviati bevendo, assieme al succo delle bacche, un bicchiere di decotto di malva o di altea.
La frangola
(Rhamnm frangala), anch’essa appartenente alla famiglia delle Ramnacee, è un arbusto la cui area di diffusione comprende l’Europa, la Siberia, il Caucaso e l’Armenia. La droga è costituita dalla corteccia dei rami e del fusto e generalmente va raccolta in primavera. La frangola è considerata un ottimo purgante, forse meno attivo dell’aloe e del rabarbaro, ma con effetto più prolungato; viene impiegata negli stessi casi in cui si usa la cascata sagrada, cioè nella terapia della stipsi cronica.
Vilucchione Fitolacca Ricino
La radice e le parti verdi del vilucchione, o campanella (Convolvulus sepium) esercitano azione colagoga e purgativa. Il principio attivofondamentale è dovuto ad una resina, che aumenta le peristalsi nell’intestino tenue, ma nello stesso tempo influisce anche sull’attività dell’intestino crasso.
La fitolacca
o uva turca (Phytolacca decandra), una fitolaccacea di origine nordamericana, deve la sua etimologia ad un insieme di vocaboli greci ed arabi; il suo nome infatti è formato dal greco pbyton, cioè pianta, e dall’arabo lakka, cioè colore, con riferimento al violaceo dei suoi frutti. Non è mai stata pianta di grande interesse, né farmacologico né letterario, se si eccettua l’uva turca della vigna di Renzo di manzoniana memoria. Talvolta la pianta è venuta alla ribalta per alcuni casi di avvelenamento per l’incauta ingestione delle bacche, di sapore tra l’altro gradevole, e che un tempo potevano essere utilizzate per dar colore al vino.
Della fitolacca viene impiegata a scopo medicinale soprattutto la radice, anche se le altre parti della pianta contengono i medesimi principi attivi, tossici in dosi eccessive; la radice stessa è dotata di proprietà emetiche ed in terapia viene usata appunto come emetico, purgativo o depurativo; la sua azione, inoltre, risulta efficace nella cura dei reumatismi cronici e dell’artrosi.
L’uso della pianta del ricino si perde nella notte dei tempi: semi che risalgono a quattromila anni prima di Cristo sono stati rinvenuti in tombe egiziane. Non si sa bene quale ne fosse allora l’uso: forse da essi veniva estratto l’olio come illuminante. La stessa cosa, del resto, ci viene confermata molti secoli dopo da Erodoto.
L’impiego dell’olio di ricino nel modo a noi più familiare, vale a dire come purgante, è piuttosto recente in Europa, risalendo al XVIII secolo. Ricinus communis, il ricino, deve la sua etimologia al termine latino ricinus, cioè zecca, per la somiglianzà dei suoi semi con il noto parassita.
È una specie appartenente alla famiglia delle Euforbiacee e nativa delle regioni tropicali asiatiche, forse dell’India, ma ormai coltivata in tutte le regioni del mondo, dove qua e là spesso si trova anche inselvatichita. Della pianta in farmacologia vengono utilizzati i semi, che costituiscono la droga.
Essi contengono in una percentuale piuttosto elevata, fino al 70%, un olio grasso alla cui composizione partecipano in gran parte ricinoleina, acido ricinoleico, a cui è dovuta l’azione purgativa, e inoltre zuccheri, resine, acido succinico, la ricinina e una tossialbumina, la ricina, che rende fortemente velenosi i semi del ricino. Basta l’ingestione di pochi semi perché si verifichino gravi casi di avvelenamento, generalmente mortali.
Tuttavia molte sostanze, tra cui la ricina, non passano nell’olio estratto per pressione a freddo: per questo motivo esclusivamente i semi ingeriti interi risultano velenosi, mentre l’olio non è affatto pericoloso. Anche se di sapore nauseante, che può essere però mascherato con caffè caldo o altre bevande, l’olio di ricino rimane ancor oggi uno dei migliori purganti, d’azione mite, capace soprattutto di combattere la stitichezza dovuta a fatti infiammatori degli organi addominali.
Aristolochie Brionia Evonimo
Piante oggi esclusivamente ornamentali, le aristolochie avevano nell’antichità una discreta fama di specie medicinali. Aristolochia infatti, è termine greco derivante da due vocaboli che complessivamente mettono in risalto le qualità abortive e emmenagoghe della nostra pianta. Farmacologicamente la parte interessata è costituita dal rizoma i cui componenti esplicano azione di purgante drastico, procurando una forte congestione degli organi addominali con risultati che molto sovente vanno al di là delle aspettative.
I principali componenti sono l’acido aristolochico, l’aristolochina, un alcaloide altamente tossico, acido malico e tannico, nonché resine, allantoina e fitosterina. L’uso dell’aristolochia, fiore e radice, avrebbe dato non molti anni or sono soddisfacenti risultati in ginecologia, curando casi di sterilii, di oligomenorrea, dismenorrea e le turbe dovute alla menopausa.
Anche la brionia, Bryonia dioica delle Cucurbitacee, è conosciuta da lungo tempo come pianta medicinale. Essa è rampicante, più o meno come la vite, tanto che fin dall’epoca di Dioscoride ebbe anche il nome di vite bianca per il colore globalmente verde pallido, in contrasto con quello cupo e lucido di Tamus communis a cui andò l’appellativo di vite nera. I principi attivi della brionia sono contenuti nella grossa radice carnosa che va raccolta in primavera prima della fioritura.
La droga è costituita da due glucosidi, la brionina e la briogenina, da un olio essenziale, da sostanze pectiche e resinose, nonché da olio e gomma.
La principale azione della brionia è quella purgativa drastica, tanto violenta da essere altamente irritante per le mucose del tubo digerente. Tuttavia, pur con una certa prudenza, secondo alcuni autori agirebbe, come purgativo, allo stesso modo della gialappa e della sena. La brionia inoltre può essere usata come diuretico e espettorante nei casi di asma umida e nella tosse canina.
È necessario tuttavia ricordare che l’uso irrazionale di questa pianta porta a sicura congestione degli organi pelvici con gravi turbamenti nel flusso emorroidario e mestruale; è assai breve il passo per giungere a dire che la brionia può considerarsi anche abortiva e per questo motivo è abbastanza familiare negli ambienti di medicina legale.
Alla famiglia delle Celastracee appartiene l’evonimo (Evonymus earopaeus), piccolo arbusto facilmente riconoscibile per gli strani frutti rosati subglobosi a quattro lobi che gli hanno meritato il nome popolare di berreti da prete. L’evonimo produce un’azione lassativa paragonabile a quella della cascara o del rabarbaro; i principi attivi più rimarchevoli sono contenuti nella corteccia, ma anche nella radice e nei frutti.
In primo luogo va segnalata l’evonimina, un glucoside che fa aumentare la peristalsi intestinale, ma nello stesso tempo è capace di procurare dolori colici di una certa consistenza. L’attenzione tuttavia, e qui ci rivolgiamo soprattutto agli adolescenti, va posta ai frutti, belli, invitanti, ma tossici. Un piccolo numero, tre o quattro, è sufficiente per agire come drastico purgante in un uomo adulto. Pochi frutti in più possono provocare gravi coliche, diarrea, e in taluni casi forme di avvelenamento anche mortale.
Digitale Digitali gialle
La digitale (Digitatis purpurea) è una scrofulariacea tipica dei terreni silicei delle zone montuose dell’Europa centrale e occidentale; nella nostra penisola allo stato spontaneo, limitatamente a alcune zone della Sardegna, cresce soltanto la varietà tomentosa.
Tuttavia Digitalis purpurea è pianta piuttosto comune in quanto, assieme a Digitalis lanata, è spesso coltivata a scopo ornamentale per la straordinaria bellezza del fiore e a scopo farmaceutico-industriale per le sue proprietà medicinali.
La digitale infatti è pianta ricca di principi attivi, tra le più importanti tra quelle della botanica farmaceutica e certamente tra le più studiate. Proprio per questi motivi che hanno reso la digitale tanto celebre, a stento si arriva a credere che le sue straordinarie proprietà medicinali siano state scoperte, e da allora studiate ad un ritmo vertiginoso, da poco più di un secolo.
Invano si potrebbero scorrere gli scritti di Dioscoride e Plinio per trovare qualche citazione sulla digitale come pianta medicinale usata tra i greci e i romani e inutilmente si consulterebbero le opere a carattere scientifico del Medioevo e del Rinascimento, i cui autori ben poco mettevano della loro esperienza, ma molto, fin troppo, si basavano su quello che avevano tramandato gli antichi. Bisogna infatti giungere in epoca piuttosto recente, e cioè intorno al 1850, per avere notizie precise sulla digitale come pianta medicinale dotata di principi cardiotonici.
La droga, secondo la farmacopea italiana, è costituita dalle foglie, mentre in altre farmacopee sono ammessi non solo i fiori e le sommità fiorite, ma anche i semi, la pianta intera e le radici. Limitando il discorso alle foglie, esse vanno raccolte all’inizio del secondo anno vegetativo, prima della fioritura o al momento della stessa, prive di picciolo; si essiccano all’ombra in luogo ben ventilato, evitando che si verifichi qualsiasi fenomeno di fermentazione. Allo stato fresco le foglie emanano un odore abbastanza sgradevole, mentre essiccate sono gradevolmente profumate.
I principi attivi sono dati da due glucosidi caratteristici e cioè digitossina e digitalina ed inoltre da altre sostanze quali la digitonina, enzimi organici ecc., che agiscono come cardiotonici. Infatti la digitale, aumentando l’elasticità del cuore e diminuendo la frequenza dei battiti, regolarizza la funzione del muscolo cardiaco, innalza la pressione arteriosa mentre contemporaneamente si assiste ad una riduzione di tutta quella serie di turbe, le cui cause sono da ricercarsi in una circolazione ostacolata (quali congestioni, stasi, edemi), e a una regolarizzazione della funzione renale.
La somministrazione dei principi attivi della digitale va limitata nel tempo in quanto gli stessi vengono eliminati dall’organismo con difficoltà, subentrando di conseguenza un pericolo di accumulo con forme di avvelenamento talvolta assai gravi.
Per queste ragioni l’uso della digitale deve avvenire sotto sorveglianza medica.
Accanto alla blasonata Digitalis purpurea esiste un gruppetto di altre specie, perlopiù spontanee della flora delle Alpi e degli Appennini, che per comodità vengono indicate come digitali gialle, dal colore, come è ovvio, della corolla. Esse sono Digitalis lutea, Digitalis ambigua, Digitalis ferruginea e Digitalis micrantba, che esplicano azione simile a quella della digitale, contenendo analoghi glucosidi con proprietà cardiotoniche e diuretiche.
Mughetto Oleandro Biancospino
Del mughetto come pianta medicinale gli antichi non se ne occuparono; ne apprezzavano soltanto l’elegante fioritura che avviene perlopiù in maggio. come mette in evidenza il termine specifico latino.
Convallaria majalis, ecco il nome scientifico di questa liliacea dell’Europa, dell’Asia e dell’America boreale, cominciò a far parlare di sé per le proprie virtù terapeutiche soltanto nel 1500, ma bisogna arrivare agli ultimi anni del 1800 quando alcuni studiosi russi, basandosi su esperienze e tradizioni popolari, portarono a termine studi e ricerche sui suoi principi attivi.
La droga potrebbe essere l’intera pianta, ma è consigliabile usare soltanto l’infiorescenza perché un importante glucoside che contiene, la convallatossina. è presente soprattutto nei fiori. Il mughetto, agendo come cardiotonico e cardiocinetico, è indicato in alcuni casi di insufficienza cardiaca, nei vizi valvolari, nei disturbi nervosi dell’attività cardiaca. Anche questa pianta può sostituire la digitale della quale è meno tossica e non presenta azione cumulativa.
Pianta a grandissima diffusione nei paesi a clima mediterraneo, Nerium oleander, l’oleandro, deve il nome latino del genere a un vocabolo di origine greca, neros cioè umido, per la tendenza che ha questo arbusto cespuglioso sempreverde di popolare allo stato spontaneo greti di fiumi e torrenti. Già i greci conoscevano le proprietà tossiche dell’oleandro, mentre quelle medicinali sono note solamente da un secolo circa.
Tutte le parti della pianta contengono principi attivi altamente tossici; in farmacologia vengono usate le foglie, che si raccolgono in maggio-luglio, e molto più scarsamente la corteccia e i frutti immaturi. Laprincipale azione dell’oleandro è quella cardiotonica; agisce inoltre come bradicardizzante e diuretico, analogamente alla digitale, della quale tuttavia è più blando e non da fenomeni di accumulo.
L’azione farmacologica dell’oleandro è dovuta fondamentalmente a due glucosidi, la neriina e l’oleandrina, fortemente tossici. Alcuni soggetti estremamente sensibili mal tollerano l’assunzione di preparati a base di oleandro, che possono provocare una forma di avvelenamento piuttosto grave. Pertanto l’uso interno di preparati come l’estratto fluido o la tintura deve essere praticato sotto controllo medico.
Nessuna controindicazione, invece, per l’uso esterno: così la polvere, che non solo è starnutatoria, ma è anche efficace contro i parassiti cutanei, in particolare pidocchi e scabbia.
Del biancospino (Crataegus oxyacantha) si hanno notizie fin dai tempi preistorici, quando alcune popolazioni lo usavano per scopi alimentari; numerose sono poi le testimonianze di vari autori, da Teofrasto a Dioscoride fino al Mattioli. La pianta da un punto di vista strettamente scientifico viene studiata soltanto nella seconda metà del 1800, allorché se ne scoprono le proprietà antispasmodiche e sedative, particolarmente nei casi di disturbi cardiaci e di origine nervosa.
La droga è costituita dai fiori quando nelle infiorescenze comincia a schiudersene qualcuno; con essa vengono preparati vari tipi di estratti che trovano impiego come regolatori cardiovascolari, come vasodilatatori, soprattutto delle coronarie, e nell’angina pectoris. Non danno luogo a accumulo.
Scilla Adonidi
La scilla, o cipolla marina (Scilla maritìma, o Urginea mari timo), appartenente alla famiglia delle Liliacee, è una pianta caratteristica della regione mediterranea dove allo stato selvatico vive in prossimità della costa, sia sabbiosa che rocciosa, e solo raramente si spinge all’interno. Esistono due tipi di scilla, che differiscono per le dimensioni del bulbo: la scilla bianca, o scilla femmina, a bulbi più piccoli, delle dimensioni di quelli di una cipolla, e la scilla rossa, o scilla maschio, con bulbi spesso enormi, delle dimensioni di un melone e del peso di 3-4 kg.
La scilla bianca è diffusa in Asia minore, Grecia, Malta, Spagna, Marocco; nel nostro paese è meno frequente: talvolta si rinviene in Sicilia. La rossa è molto più frequente nel resto dell’Italia meridionale e insulare, in Libia, e qualche volta abbondantissima nei luoghi aridi presso il mare.
La scilla è velenosa, specialmente fresca. La droga è data dal bulbo – Scillae bulbus delle farmacopee ufficiali – che va raccolto in agosto, prima della fioritura che di solito avviene dopo gli acquazzoni della tarda estate, tagliato a fette ed essiccato.
Esso contiene – con alcune differenze tra le due varietà – glucosidi tipo lo scillarene-a, a sua volta costituito da scillabiosio e scillaridina; inoltre glucoscillarene, scilliglaucoside, poliosi, svariati acidi organici e lo sterolo scillisterina. La scilla rossa contiene inoltre un pigmento flavonolico, l’isoramnesina. La scilla è uno dei “semplici” di più antico e accertato uso tra le popolazioni del bacino mediterraneo.
Per la sua azione diuretica la ricordano Teofrasto e Plinio, Dioscoride la consiglia nell’idropisia e nell’asma, Alberto Magno ne cita l’ uso come emmenagogo.
L’azione farmacologicamente più importante, tuttavia, esercitata da questa droga è quella cardiotonica, scoperta verso la fine del XVIII secolo e assai simile a quella della digitale e delle altre droghe dette appunto “digitaliche” come oleandro, strofanto, convallaria e adonide primaverile. Non è esatto tuttavia considerare la scilla semplicemente come un succedaneo digitalico. Altre applicazioni della scilla, oltre a quella diuretica, si hanno nella cura dell’eclampsia tossigravidica.
Particolari preparazioni note da gran tempo e ancora in uso sono il vino, l’aceto e Tossirmele scillitico. Un altro uso, curioso e assai particolare. è l’impiego dei bulbi freschi di scilla come veleno per topi.
Azione fondamentale di tipo digitalico possiedono anche gli adonidi, piante erbacee appartenenti alla famiglia delle Ranuncolacee.
Tra essi il principale è l’adonide primaverile, o vernale (Adonis vernatisi, diffuso nelle montagne della Spagna, della Francia e dell’Europa centrale ma assente nel nostro paese.
Nella nostra flora sono presenti invece altri adonidi, detti “estivali” in contrapposizione al “vernale”, tra i quali particolarmente comune è Adonis autumnalts, che malgrado il nome fiorisce esso pure all’inizio dell’estate. Degli adonidi si usa la pianta intera raccolta prima della fioritura – Adonidis herba – che contiene svariati glucosidi – adonina, adonidoside, cimarina – saponine, resine, acidi grassi. L’adonide primaverile viene usato come cardiotonico per cure prolungate intervallandolo alla digitale e come diuretico per risolvere edemi da insufficienza cardiaca.
Ginestra dei carbonai Amamelide
La ginestra dei carbonai (Sarothamnus scoparius, o Cytisus scoparius) è un arbusto di modesta taglia, a fusti e rami sempreverdi, diffuso pressoché in tutta Europa dalla pianura alla montagna laddove le condizioni pedologiche lo consentono, e cioè su terreni a reazione acida.
Nel nostro paese è reperibile e spesso abbondante nella Pianura Padana (“sabbioni” e brughiere), sull’Appennino emiliano ad alta quota (dove cioè affiora il cosiddetto “macigno”), nei terreni vulcanici della Toscana e del Lazio.
È stata anche ampiamente usata, e con successo, per consolidare le scarpate di lunghi tratti dell’Autostrada del Sole. Attenzione poi a non confonderla con altre ginestre, ad esempio con lo Spartium junceum, dal quale si riconosce facilmente perché Sarothamnus scoparius ha rami angolosi mentre Spartium li ha lisci. Appartiene alla famiglia delle Leguminose-Papilionacee.
La droga è data dai giovani rami raccolti al momento della fioritura o dai fiori appena schiusi, di un bel color giallo oro. Raccolti in tempo e ben essiccati, i fiori diventano dopo l’essiccamento color giallo arancio; se raccolti troppo tardi 0 schiacciati nella raccolta, o se essiccati male, imbruniscono facilmente. Contengono gli alcaloidi 1-sparteina (o lupinidina), sarotamnina, 1-a-isosparteina (o genisteina).
Il contenuto in sparteina è assai variabile nelle diverse parti della pianta e nei vari mesi di vegetazione, ma i dati al riguardo sono abbastanza discordanti. Rami e fiori contengono inoltre scoparina e altri flavoni, alcoli e acidi organici.
Mentre il principale componente, la sparteina, è stato largamente usato come analettico cardiovascolare, oggi si usa perlopiù la droga in foto soprattutto per la sua azione diuretica e declorurante dovuta, pare, al contenuto in scoparina che agisce determinando una modica irritazione a carico degli epiteli secretori del rene.
Questa azione, già nota agli antichi autori, è assai utile anche come coadiuvante nella cura di malattie dell’apparato respiratorio come bronchiti, pleuriti, polmoniti. Alcuni autori le riconoscono anche proprietà emostatiche atte a frenare emorragie post-partum, curare varici e ulcere cutanee, nonché virtù oxitociche.
L’amamelide (Hamamelis virginiana) è un piccolo arbusto caducifoglio comune nel versante atlantico del Nordamerica e spesso coltivato anche nei nostri giardini. Appartiene alla famiglia delle Amamelidacee.
La droga è data dalla corteccia e dalle foglie – Hamamelidis folta delle varie farmacopee – che contengono tannino e olio essenziale. Distillando in corrente di vapore rametti e foglie di amamelide si ottiene un’”acqua aromatica” che è propriamente idrolato o acqua distillata di amamelide. Sia nelle foglie che nella corteccia sono poi presenti altri e svariati composti, tra i quali la cosiddetta hamamelina, una sostanza di natura resinosa.
L’amamelide è stata introdotta in terapia verso la fine del secolo scorso come decongestionante, astringente, vasocostrittore periferico e regolatore dei rapporti tra circolazione arteriosa e venosa. Oltre che in cosmetica – lozioni e creme astringenti – l’amamelide viene largamente usata nel trattamento di emorroidi, flebiti, varici e nella cura delle turbe dell’apparato genitale femminile (emorragie, congestioni, dismenorree, disturbi da menopausa).
Cardiaca Aconiti
La cardiaca (Leonurus cardiaca) è una pianta erbacea perenne diffusa nelle zone temperate dell’Asia e dell’Europa. Nel nostro paese si trova qua e là nei luoghi incolti o maceriosi, lungo le siepi, ai bordi delle vie. Appartiene alla famiglia delle Labiate.
La droga è data dall’erba intera fiorita. Contiene olio essenziale; un alcaloide dapprima denominato leonucardina e che è poi risultato essere stachidrina; alcuni glucosidi, di natura non ben definita tra cui uno, amaro, detto leonurina; tannini, resine e saponine; acidi organici (citrico, malico e tartarico); fosfati di sodio, calcio e potassio.
Le attività terapeutiche di questa pianta – come sedativo del sistema nervoso centrale e periferico e dell’apparato cardiovascolare – sono note dal XVII secolo, quando veniva usata nella cura dell’epilessia e come sedativo nervoso in generale. Attualmente le vengono riconosciute proprietà di sedativo delle nevrosi cardiache con diminuzione della frequenza delle pulsazioni, nonché azione preventiva e sedativa dei dolori da angina pectoris. Può essere impiegata da sola o in pozioni e confetti sedativi associati ad altre droghe ad azione analoga come biancospino e valeriana.
L’aconito
(Aconitum napellus), appartenente alla famiglia delle Ranuncolacee, è una pianta erbacea perenne dei boschi e dei luoghi erbosi, pingui e freschi, diffusa nell’Europa e nell’Asia centrale e da noi, sulle Alpi. Ha foglie picciolate e finemente laciniate e caratteristici tuberi, generalmente appaiati e fusiformi.
Dei due tuberi raffigurati nella tavola a fianco quello più vecchio è di colore bruno e a superficie grinzosa; quello più giovane è più chiaro, più turgido e liscio. Secondo alcuni autori possiede analoghe proprietà terapeutiche anche Aconitum variegatum, ad habitat e diffusione pressoché uguali e che si distingue dal primo per il fusto flessuoso e ramificato.
La droga è data dai tuberi – Aconiti tuberà della farmacopea ufficiale – che vanno raccolti alla fioritura e secondo alcuni autori anche dalle foglie. Il napello, in particolare, contiene svariati alcaloidi e cioè aconitina, picroaconitina, aconina, neopellina, neolina, napellina e altri; 1-sparteina e I-efedrina e poi resine, grassi, numerosi acidi organici (malico, citrico, tartarico, ossalico, succinico), zuccheri ed altre sostanze ancora.
Le proprietà farmacologiche e terapeutiche – e, come controindicazione, anche tossiche – dell’aconito variano con la diversa combinazione degli alcaloidi, sicché è più corretto parlare dell’azione del complesso piuttosto che dell’azione di una singola sostanza. Localmente le preparazioni di aconito hanno proprietà eccitanti sulle terminazioni nervose cui segue formicolio, sensazione di calore e attenuazione o perdita della sensibilità.
Sul cuore l’aconito agisce con aumento della diastole e diminuzione della sistole. Per questo fu usato in passato come sedativo dell’attività cardiaca e respiratoria, e anche in casi di tossi ostinate. Oggi viene pure usato come analgesico nella terapia di nevralgie, emicranie e mali di denti, soprattutto per le zone innervate dal trigemino. L’elevata tossicità dell’aconito, tuttavia, consiglia utilizzazioni estremamente caute e comunque sempre sotto sorveglianza medica.
Vischio Olivo
Non ha certo bisogno di presentazione il beneaugurante vischio tanto comune nei giorni delle festività di fine d’anno. Eppure ben pochi sono a conoscenza che questo arbusto emiparassita a ramificazione apparentemente dicotomica ed appartenente alla famiglia delle Lorantacee, oltre ad essere un tradizionale simbolo di augurio, possiede in alcune sue parti sostanze con proprietà medicinali.
Le notizie riguardanti Viscum album si perdono nella notte dei tempi e sono sempre legate a leggende e a tradizioni popolari già conosciute presso greci e romani che, tra l’altro, con il termine vischio solevano indicare quella sostanza appiccicaticela, appunto vischiosa, contenuta all’interno dei frutti bacciformi.
L’uso poi di scambiarsi sul finire dell’anno il rametto di vischio è relativamente recente, ma se tale cerimoniale dapprima era limitato alle genti nordiche, con il tempo è entrato anche nelle abitudini di popolazioni che vivono a latitudini più meridionali, analogamente all’albero di Natale.
Più contenuta è invece la fama del vischio come pianta medicinale; nell’antichità erano conosciute le sue proprietà antispasmodiche, ma bisogna giungere alla seconda metà del secolo scorso perché i suoi principi attivi fossero studiati profondamente. E come spesso accade in campo scientifico, sorsero controversie tra i vari autori per l’accettare o meno la presenza di alcune sostanze ad azione farmacologica.
Diremo in sintesi che foglie e rametti contengono elementi con spiccate proprietà ipotensive; la droga agisce sui centri vasomotori, si determina una vasodilatazione con conseguente abbassamento endovasale della pressione.
Il suo uso (infuso o decotto) è pertanto consigliato nei casi di ipertensione, di arteriosclerosi, nonché in pazienti nefritici cronici o soggetti a emorragie degli organi interni. Meno frequente è invece l’impiego della polvere delle foglie di vischio come medicamento antispasmodico: è abbastanza efficace nei casi di asma cardiaca, di tosse canina, di singhiozzo.
Può sembrare strano che in questa sede si parli dell’olivo; ciò che si estrae dalle sue drupe carnose, l’olio cioè, divenuto, almeno per alcuni popoli, il principe degli alimenti, fa sì che questa pianta sia collocata tra l’elite di quelle alimentari. È pur vero però che l’olio, oltre che per le proprietà organolettiche, dietetiche e per l’alto contenuto vitaminico può venir impiegato nella pratica terapeutica come blando lassativo nei casi di stitichezza cronica.
Il centro di diffusione dell’olivo (Olea europaea) non è ben chiaro anche se recentemente lo si è identificato in una zona compresa tra i monti a sud del Caucaso, le propaggini occidentali dell’altopiano iraniano e le coste della Siria e della Palestina, da dove, attraverso l’Egitto e l’Asia minore, la pianta avrebbe raggiunto prima la Grecia ed in seguito il resto dell’Europa occidentale.
Nelle nostre regioni è possibile distinguere la forma spontanea, cioè l’oleastro (Olea europaea var. oleaster), tipico delle macchie vicino al mare e delle altre zone a clima mite, e la forma coltivata, cioè l’olivo domestico (Olea europaea var. sativa). La farmacologia è interessata non ai frutti, ma alle foglie che costituiscono la droga; preparati a base di foglie, oltre a essere fin dall’antichità impiegati come astringenti, tonici e febbrifughi, sono ora soprattutto indicati nella terapia di parecchie forme di ipertensione. Contemporaneamente alle foglie viene attribuita un’azione ipoglicemizzante.
Malva Altea Malvone
La diffusione di Malva silvestri*, la malva, interessa l’Europa, l’Asia occidentale, la Siberia e l’Africa boreale. Già l’etimologia – malva deriverebbe dal greco malakein, ammorbidire – ci fa intravedere quanto in seguito è stato confermato sia dalla medicina popolare sia dalla farmacologia: i principi attivi contenuti nei fiori e nelle foglie fanno della malva silvestre un buon emolliente nei casi di tosse e bronchite.
Per questo scopo fiori e foglie vanno raccolti in estate durante la fioritura, fatti essiccare all’ombra, mantenuti in luogo asciutto e consumati nel giro di un anno. Le qualità emollienti della malva silvestre sono anche utili per lenire infiammazioni del tubo digerente e degli organi urinari, mentre per uso esterno recano sollievo ad infiammazioni della pelle e delle mucose.
Se è vero, come sembra, che il verbo greco altaino, guarisco, sia alla base del termine altea, nome volgare della classica Althaea officinali^ è fuor di dubbio che questa malvacea eurasiatica era conosciuta molti secoli prima di Cristo. Al tempo di Ippocrate l’altea era ritenuta efficace per curare le ferite, ma non siamo certi che si tratti della medesima pianta indicata oggi con tale nome.
Con certezza invece ne parla Dioscoride, che ne da una descrizione morfologica piuttosto precisa insieme a suggerimenti sul suo impiego, sia esterno che interno; altre notizie successivamente ci provengono da Teofrasto e da Plinio, mentre Carlo Magno nei suoi “capitolari” ne ordina la coltivazione e la diffusione.
Un’ulteriore conferma del valore officinale dell’altea ci è data dagli erboristi del Rinascimento, che considerarono questa pianta una vera e propria panacea, in grado di dare sollievo a innumerevoli guai corporei: dalla tosse alla diarrea, dalla gonorrea alla leucorrea, dal mal di stomaco al mal di gola, dall’enterite al mal di denti.
Oggi l’altea è iscritta in quasi tutte le farmacopee e di essa vi è sempre notevole richiesta. La droga è costituita in modo particolare dalla radice, in secondo luogo dalle foglie e dai fiori che contengono all’incirca gli stessi principi attivi della prima, ma in quantità nettamente minore.
La radice va raccolta nel secondo anno di vita, ripulita, raschiata e seccata al sole, mentre le foglie vanno staccate durante la fioritura. Per le sue proprietà emollienti, calmanti e rinfrescanti l’altea è usata nelle forme catarrali delle vie respiratorie, nonché nella gastrite, nell’enterite e nella dissenteria. È utilizzata inoltre per uso esterno per gargarismi e per curare infezioni orali e faringee.
Althaea rosea, il malvone, o malvarosa, è specie affine a Althaea officinali* non solo botanicamente ma anche farmacologicamente, per quanto risulti meno usata nella medicina popolare. Di questa pianta, originaria dell’Europa sud-orientale, sono impiegati esclusivamente i fiori, di solito quelli delle forme a colore rosso cupo. I loro principi attivi esplicano un’azione emolliente; sono inoltre calmanti e rinfrescanti.
L’impiego del malvone è quindi indicato principalmente contro la tosse e in secondo luogo per alleviare forme infiammatorie intestinali quali gastriti, enteriti, cistiti.
Primula Viola mammola Lichene islandico Lichene polmonario
Azione farmacologica preminentemente espettorante e pettorale hanno i rizomi delle primule (Prìmula officinalis e Primula elatior) che ricoprono copiosamente i prati montani all’inizio della primavera.
I principi attivi sono dovuti oltre alla primaverina e alla primulaverina al conrenuto di saponine sotto forma di un glucoside saponoide, la primulina. Tali saponine attivano la secrezione bronchiale e risultano pertanto efficaci nella cura delle bronchiti e dell’asma bronchiale.
In alcune farmacopee sono iscritte specie di viole la cui fama di solito è legata al profumo, al colore, all’eleganza del fiore, non certamente alle doti medicinali che forse pochi conoscono. Eppure fin dai tempi di Galeno l’umile viola mammola (Viola odorata), tanto comune lungo le siepi e nei boschi, era conosciuta in medicina per le proprietà emollienti e espettoranti, che, pur essendo meno efficaci, molto si avvicinano a quelle dell’ipecacuana.
La droga è costituita dai fiori con i quali si prepara un infuso oppure uno sciroppo o un estratto fluido; contiene un principio mucillaginoso, nonché qualche traccia di un particolare alcaloide, la violina, e una sostanza colorante azzurra, la cianina, che ha la proprietà di arrossare con gli acidi e di inverdire con gli alcali. Ugualmente usate sono le radici di Viola odorata alle cui virtù espettoranti e vomitive si possono aggiungere anche quelle lassative.
Anche i licheni, grande gruppo di piante inferiori i cui rappresentanti derivano dalla simbiosi di piccole alghe verdi o azzurre con funghi, hanno un certo interesse farmacologico e il loro impiego terapeutico è conosciuto già da qualche secolo. Il lichene islandico (Cetraria islandicà), appartenente alla famiglia delle Parmeliacee, è forse il più significativo anche perché in tempi molto remoti costituiva per alcune popolazioni dell’Europa settentrionale un discreto alimento.
Già Linneo e Scopoli nella seconda metà del XVIII secolo suggerivano l’uso di preparati a base di lichene islandico per curare le malattie polmonari in genere; vale a dire cioè che era considerato un ottimo emolliente, pettorale e decongestionante per tutte le affezioni delle vie respiratorie, anche se, chiaramente, non era in grado di combattere la tubercolosi come si credeva.
La droga viene ricavata dai talli secchi che vanno raccolti in primavera o in autunno.
Si fanno bollire per un certo tempo in acqua e a mano a mano che il decotto si raffredderà si vedrà formarsi una gelatina che, tra l’altro, con l’aggiunta di gomma arabica, zucchero ed essenze aromatiche è alla base della preparazione delle famose pasticche di lichene indicate nella cura dei catarri bronchiali.
Un altro lichene, il cui impiego farmaceutico è però relativamente scarso, è Lobarìa polmonaria, il lichene polmonario, che vive sui tronchi degli alberi nei boschi più o meno di tutto il mondo. Per le sue qualità emollienti può essere usato come succedaneo del lichene islandico, ma la sua richiesta per la cura delle affezioni bronchiali è estremamente limitata.
Polmonaria Saponaria Tigli
È molto chiara l’etimologia di Pulmonaria, italiano polmonaria, termine con il quale si allude ad una pianta erbacea della famiglia delle Borraginacee. C’è in comune infatti la radice “polmone”, organo al quale le foglie di questa pianta possono far pensare per le macchie sparse sulla superficie; si tratterebbe in ogni caso di un polmone malato, perlopiù di tubercolosi.
E infatti all’epoca di Paracelso vigeva la teoria della segnatura: dato che le foglie della polmonaria, macchiate di bianco, ricordano i polmoni, “necessariamente” esse dovevano essere in grado di curarne le affezioni. Attualmente non si può certo negare qualche azione farmacologica alle foglie di polmonaria. Esse contengono saponine, mucillagine, tannino, sostanze grasse e resinose, carotene e vitamina C, oltre a manganese.
Infusi e decotti a base di foglie si ritengono blandamente efficaci nelle infiammazioni delle vie respiratorie per la loro azione emolliente e espettorante; nella cura della tubercolosi, come del resto è chiaro, ben altro è necessario somministrare. Alla luce di studi relativamente recenti si tenderebbe inoltre a attribuire alla polmonaria proprietà diaforetiche, capaci cioè di promuovere un’abbondante traspirazione cutanea; la stessa pianta in un futuro piuttosto prossimo potrebbe acquistare importanza farmaceutica perché ricca di vitamina C.
Pianta medicinale di antichissime origini è la saponaria (Saponaria officinali^ una cariofillacea a diffusione eurasiatica; le sue proprietà curative erano già conosciute presso i medici arabi che la prescrivevano per curare la lebbra, le dermatiti e le ulcere. Tutte le parti della saponaria, ma in particolar modo la radice, contengono un glucoside, la saponina, che in piccola percentuale è capace di rendere saponosa l’acqua. L’estratto acquoso ricavato dalle foglie, lasciate a macerare per non molto tempo, esercita un’azione espettorante e antireumatica, nonché depurativa del sangue.
Teofrasto, Plinio e Galene con le loro testimonianze ci inducono a credere che le proprietà terapeutiche dei tigli erano conosciute fin dall’antichità: corteccia, linfa e foglie erano ritenute efficaci rispettivamente per curare la lebbra, arrestare la caduta dei capelli e risolvere ascessi.
Oggi i principi attivi vengono esclusivamente ricavati dai fiori – flores Tiliae delle farmacopee di vari paesi – con i quali si preparano infusi dotati di azioni diverse da quelle tramandateci dall’antichità. Con il termine generico di tiglio ci si riferisce a più di una specie; è abitudine infatti raggruppare i tigli a fiore semplice, Tilia plathyphylla, Tilia vulgaris e Tilia cordata, la cui droga in commercio va sotto il nome di tiglio officinale o gentile, e tigli a fiori doppi, Tilia americana e Tilia argentea, la cui droga prende il nome di tiglio argentato.
In Italia, tuttavia, si ricorre quasi sempre al tiglio officinale. I principi attivi contenuti nelle infiorescenze sono costituiti da zuccheri, mucillagine, carotene, sostanze tanniche, il glucoside tiliacina, un olio essenziale assai profumato, gli acidi malico, tartarico e acetico, vitamina C. La medicina popolare consiglia un infuso di fiori, al 15-20 per mille, con proprietà in primo luogo diaforetiche, e inoltre antispasmodiche nelle affezioni nervose e bechiche nell’asma, nella tosse convulsa e nelle bronchiti.
Enula campana Papavero rosso Viola tricolore
Molteplici sono le proprietà farmacologiche, che interessano più di un apparato, attribuite all’enula campana (Inula helenium), composita dell’Europa sud-orientale e dell’Asia. La radice contiene canfora d’enula, olio essenziale, inulina, resine, mucillagine ecc., che agiscono tra l’altro sull’apparato uro-genitale e su quello respiratorio. Perciò gli infusi, i vini, gli estratti fluidi che si preparano con Penula campana riescono efficaci nelle bronchiti, nella tosse asinina, nell’asma umida, regolarizzano il flusso mestruale, mettono infine in evidenza le loro doti depurative, diuretiche e diaforetiche.
Ogni anno dalla primavera inoltrata fino al pieno dell’estate si rinnova il meraviglioso spettacolo della fioritura del papavero.
Il papavero rosso o rosolaccio (Papaver rhoeas) è pianta assai comune, abbondantemente diffusa in Europa (manca soltanto in Svezia e in Norvegia nell’Asia temperata e nell’Africa settentrionale. Già Virgilio in una delle Egloghe parla di questa pianta, ma l’etimologia della parola Papavero non è latina, derivando del celtico papa, cioè pappa, perché presso i celti era corrente l’usanza di mescolare il succo del papavero alle pappe dei bambini, che anche in quei lontani tempi avevano difficoltà ad addormentarsi.
Forse per tale motivo la pianta si è acquistata fama di sedativo, seppur blando, dal momento che non contiene morfina come il papavero da oppio. La droga è costituita dai petali del fiore che vanno raccolti con cura, distesi e fatti essiccare rapidamente in modo che non perdano il colore.
I principi attivi sono dovuti ad alcaloidi quali la readina, li reagenina, l’isonadina, la protopina; mucillagini e pigmenti antocianici. Isemi invece sono assai ricchi di un olio, circa il 35%, formato in prevalenza dagli acidi linoleico, oleico, palmitico e stearico.
Attualmente il papavero rosso può trovare impiego in pediatria per le sue proprietà blandamente sedative, ma ancor più viene usato come calmante della tosse e pertosse, come espettorante e bechico nelle bronchiti.
Della viola tricolore (Viola trìcolor), così detta perché spesso la sua corolla appare di tre colori, sono note parecchie varietà con diffusione prevalentemente regionale. La specie invece estende il suo areale in Europa, nell’Asia occidentale e settentrionale, nell’Africa boreale.
Altrove è presente naturalizzata e da essa si sono ottenute numerose forme coltivate a scopo ornamentale. Le proprietà medicinali di VioL tricolor e delle specie vicine erano conosciute già nell’antichità, con Ippocrati e Dioscoride, e nel medioevo con i medici arabi.
La droga è costituita dai fiori, che rappresentano la parte più richiesta, dalle foglie ed anche dall’intera pianta fiorita. I principi attivi contenuti sono mucillagini, zuccheri, tannino, un glucoside, cioè la violaquercitrina, tracce di violina, saponine e vitamina C. I fiori in particolare contengono alcuni carotenoidi con proprietà bechiche ed espettoranti e per questo vengono impiegati per curare la tosse canina.
La pianta intera invece dotata di azione diuretica, diaforetica, purgativa e depurativa; gode di un certo impiego per combattere le eruzioni cutanee, per curare l’acne giovanile e nel trattamento della crosta lattea dei neonati.
Pini
Non è certamente questa la sede più adatta per parlare, anche in senso lato, dei pini, essendo la loro importanza in campo medicinale ben poca cosa rispetto, per esempio, all’interesse vegetazionale di queste specie; enorme è di conseguenza il loro peso nell’economia forestale e in quella industriale. Ovunque il nostro sguardo possa spaziare, dal mare, alle colline, alla media e alta montagna, pur nelle forme diverse, questi alberi partecipano in grande misura alla caratterizzazione di questo o quel tipo di paesaggio.
Si vedono pini dappertutto, potrebbe qualcuno concludere un po’ frettolosamente; il che non è del tutto giusto perché altri soggetti “piniformi’” sono sparsi qua e là dall’uomo, ma soprattutto da madre natura quasi volesse confondere le idee di coloro per i quali le conifere in qualche modo si identificano con i pini. Non devono venir dimenticati, per citarne alcuni, i cedri, i larici e gli abeti.
Il termine italiano pino deriva chiaramente dalla lingua latina, ma a sua volta pinus trae origine dal vocabolo greco pitus che Teofrasto soleva usare riferendosi al pino selvatico. Anche la mitologia è implicata in qualche occasione con la nostra pianta: pitus doveva essere un’amante del dio Fan, lo stesso dio che la letteratura, tramite Ovidio, ci descrive mentre si cinge la chioma con rametti di pino. Ma anche altri autori, citeremo Virgilio nelle Egloghe e inoltre Plinio, Grazio e Properzio, non tralasciarono nelle loro opere di accennare a queste piante aghiformi, certamente a più di una specie, con ogni probabilità già allora economicamente assai importanti.
Anche le proprietà farmacologiche, e di conseguenza l’uso terapeutico di preparati ottenuti dai pini in senso generico, sono noti fin dall’antichità, tanto è vero che Ippocrate e Dioscoride sollecitavano l’impiego di olio essenziale per curare le affezioni infiammatorie riguardanti l’apparato polmonare.
Da quel tempo sono trascorsi molti secoli, eppure anche le terapie moderne non si discostano molto da quelle antiche e l’azione balsamica ed anticatarrale dei preparati a base di pino è assai apprezzata anche attualmente. Si è invece individuato, e d’altra parte era inevitabile che le ricerche e le tecniche moderne approdassero a qualcosa di nuovo, che alcune sostanze medicinali si estraggono con più convenienza da una specie di pino piuttosto che da un’altra, o che una parte di pino contiene principi che la medesima parte di un’altra specie non contiene.
Comunque in un modo o in un altro sono interessati alla farmacologia il pino silvestre, Pinus silvestris, il pino marittimo, Pinus pinaster, il pino domestico, Pinus pinea, il mugo, Pinus mugo, a anche il pino d’Aleppo, Pinus halepensis. Le gemme, le foglie dei giovani rami e la corteccia contengono i principi attivi costituiti tra l’altro da olio essenziale e resina con i quali si preparano sciroppi, infusi, tisane, succhi, la cui azione balsamica è terapeuticamente valida per debellare affezioni catarrali dell’apparato respiratorio. Non deve infine passare sotto silenzio l’utilizzazione delle gemme di pino, la cui essenza viene largamente impiegata in profumeria e nell’industria dei saponi.
Grindelia Efedra Lobelia
La grindelia (Grindelia robusta) è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Composite. Originaria delle zone umide e paludose della California, nel nostro paese è facilmente coltivabile nei giardini. La droga è data dalle foglie e dai capolini: questi ultimi sono rivestiti da un essudato resinoso che rende la parte appiccicosa al tatto. Questa caratteristica spiega facilmente il termine volgare di gum-plant dato alla pianta in lingua inglese.
La grindelia contiene soprattutto una resina, alla quale sono dovute le proprietà farmacologiche, acidi organici alcoli, fenoli e una saponina ad azione emolitica. Anche se è dotata di altre proprietà – narcotiche, bradicardizzanti, depressive respiratorie -la grindelia sotto forma di polvere, tintura o estratto fluido è usata come sedativo nel trattamento di bronchiti catarrali acute e, associata ad esempio allo stramonio, nella cura dell’asma bronchiale.
L’efedra
è data da varie specie di questo genere sia esotiche sia del nostro paese. In Italia sono presenti, infatti, Ephedra dìstachya, diffusa qua e là lungo le coste sulle spiagge sabbiose della penisola e delle isole e più raramente all’interno (Trentino, Marche); Ephedra nebrodensis dei luoghi rocciosi (Madonie; Monte Oliena, in Sardegna); fragilis dell’Italia meridionale, Sicilia, Malta. In Cina si usa Ephedra sìnica e altre specie.
Si tratta di piante legnose alla base con rami sottili, fragili, articolato-nodosi, verdi e privi di foglie. La droga è data dai rami che contengono l’alcaloide efedrina (che è poi un miscuglio di numerosi altri alcaloidi), tannino, olio etereo, mucillagini, resine.
L’efedra è conosciuta nella medicina cinese fin dall’antichità più remota come antifebbrile e sedativo della tosse. Se le notizie relative all’attività farmacologica e alle proprietà cliniche dell’efedra considerata nel suo insieme sono scarse, abbondantissime sono invece quelle sull’attività dell’efedrina che annovera notevoli proprietà affini all’adrenalina.
L’efedrina trova un’infinità di applicazioni: per combattere l’ipotensione, come antiallergico (asma bronchiale, raffreddori e febbri da fieno), nel reumatismo articolare.) nei disturbi della minzione (enuresi notturna), come collirio ad azione midriatica e, ancora, come sedativo della tosse. A tutti sicuramente ben nota è la presenza dell’efedrina – basta leggere la composizione – in certe | pomate che si usano localmente come decongestionanti negli stadi più acuti e fastidiosi del raffreddore.
La lobelia,
o tabacco indiano (Lobelia in/lata), appartenente alle Lobeliace è una pianta erbacea annuale originaria delle paludi e degli acquitrini di molte regioni degli Stati Uniti e del Canada, talora anche coltivata come pianta ornamentale. Le proprietà terapeutiche di questa pianta, introdotta in Europa agli inizi del XIX secolo, erano già note agli india d’America. La pianta contiene numerosi alcaloidi raggruppabili sotto il globale di lobelina, acidi organici, olio essenziale.
Esplica numerose e complesse azioni: in terapia, sotto forma di estratto, tintura o sigarette, viene usata nel trattamento dell’asma e come espettorante. È stata anche descritta una sua azione antiallergica in casi di orticaria. A dosi elevate la lobelia è velenosa e produce vomito, nausea, tremori e sudorazione diffusa.
Farfara Ruchetta selvatica
La farfara, o tossilagine (Tussilago farfara) è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Composite, molto diffusa nel vecchio mondo – Europa, Asia, Nordafrica – e comunissima nel nostro paese, specialmente al nord, dalla pianura alla montagna, nei luoghi umidi e argillosi. A questo proposito torna d’obbligo citare un saggio proverbio bolognese, riferito dal Lodi, che, per sottolineare la inospitalità del terreno dove cresce la farfara, suggerisce furbescamente « induv vein la farfanela, dal in dota a to surela… »
La droga è data dalle foglie e dai capolini. Le foglie vanno raccolte durante la prima estate quando si sono ormai “pelate” del feltro cotonoso che le riveste nelle prime fasi vegetative.
A questo proposito occorre dire che vi sono delle differenze tra le piante di pianura e quelle di montagna, o centroeuropee, che restano cotonose fino all’autunno. Le foglie della farfara contengono un glucoside amaro, la tussilagina, resine, tannino, olio essenziale e acidi organici.
La fioritura è primaverile ed assai precoce; negli inverni particolarmente miti può iniziare già a gennaio. In certi ambienti, come le cave abbandonate di argilla, la farfara è talmente abbondante che le sue fioriture si possono notare anche da grande distanza. I capolini vanno raccolti assai giovani, appena schiudono; quelli che cominciano a sfiorire hanno minor valore. Sia foglie che capolini sono dotati di proprietà emollienti e bechiche: calmano la tosse e facilitano l’espettorazione del catarro.
Si possono usare in infuso (5%) associati a fiori di malva e verbasco e a radici di altea senza alcun pericolo anche nella medicina familiare. Entrano nella composizione di caramelle e pastiglie contro la tosse. L’efficacia di questi preparati può essere esaltata sciogliendo pasticche e caramelle nel latte caldo.
Pure usata come espettorante – anche se il suo uso più noto è quello di aromatizzante di sapide insalate primaverili – è la ruchetta selvatica (Diplotaxis tenui folta), crocifera perenne assai diffusa in Europa, Asia minore, Africa settentrionale. Nel nostro paese è comunissima nei luoghi
coltivati aridi e pietrosi, negli incolti, tra le macerie, sui vecchi muri. Produce fiori gialli che compaiono, praticamente, da febbraio a ottobre e spesso anche oltre. Contiene, analogamente alle altre Crocifere, glucosidi solforati, tra cui il solfocianato di aliile.
Il succo della pianta fresca esercita, per via interna, un’efficace azione espettorante. La ruchetta possiede inoltre, come altre Crocifere delle quali si usano le foglie fresche comunque le parti verdi (assai affine le è la rucola, Eruca sativa), le consuete proprietà stimolanti, antiscorbutiche, diuretiche e revulsive.
Edera terrestre Eucalipto Bignonia
Si da il nome volgare di edera terrestre a Glechoma hederacea, una labiata eurasiatica piuttosto comune. Per evitare ogni equivoco è bene dire subito che nulla ha in comune con la notissima edera che appartiene a una famiglia ben lontana sistematicamente. L’edera terrestre era conosciuta nella medicina popolare dei tempi passati e usata in terapia per le malattie bronchiali e polmonari.
La droga è costituita dalla pianta fiorita che contiene una sostanza resinosa amara, un olio etereo verde e aromatico, capace di fluidificare il catarro e di procurare l’espcttorazione, e inoltre molte sostanze tanniche, cera e grassi. L’edera terrestre è uno dei componenti del “té svizzero”, assieme all’assenzio, all’issopo, al camedrio. alla maggiorana, all’origano, al millefoglio, al rosmarino, alla salvia, al farfaro e alla veronica. Foglie e sommità fiorite di queste piante costituiscono ottime miscele e infusi stimolanti.
Agli inizi del secolo scorso dall’Australia vennero introdotte nel nostro paese un discreto numero di specie di eucalipto, giganteschi alberi che ben si acclimatarono in alcune regioni italiane. Vennero importate perché si riteneva che queste piante avessero la facoltà, per virtù delle loro emanazioni balsamiche, di tenere lontane le zanzare e pertanto ci si preoccupò di diffonderle nelle zone costiere e paludose colpite dalla malaria.
Qua e là, anche perché poco dopo venne scoperto il ciclo biologico del plasmodio della malaria, qualche beneficio si ebbe realmente, non tanto per le benefiche emanazioni balsamiche, ma perché l’enorme apparato fogliare degli eucalipti si dimostrò assai utile, per la vasta superficie soggetta a traspirazione, a prosciugare terreni sempre in fase di impaludamento.
La specie che più delle altre in breve tempo trovò ampia diffusione è stata Eucalyptus globulus, una delle più rustiche e nello stesso tempo di più rapido sviluppo. Dal 1870 l’eucalipto cominciò a interessare il campo medico e farmaceutico. La parte che si è dimostrata ricca di principi attivi e che costituisce la droga è data dalle foglie adulte che vanno raccolte in estate, seccate all’ombra e conservate al chiuso e al buio: hanno odore fortemente aromatico e sapore nello stesso tempo aromatico e amaro.
L’eucalipto, per la presenza di tannino, esplica azione tonica e astringente, ma ciò che io ha reso famoso è il contenuto di un olio essenziale che agisce da balsamico, espettorante, antiparassitario e batteriostatico. È consigliato come balsamico nella cura dell’asma e delle bronchiti croniche, come antisettico nelle affezioni delle vie respiratorie, dell’apparato uro-genitale e intestinale. Valide sono anche li fumigazioni e le inalazioni contro la tosse; efficaci sono le pastiglie di eucalipto e le sigarette per asmatici preparate con le foglie preventivamente seccate all’ombra.
Non solo i frutti ma anche la radice, la corteccia e le foglie della bignonia (Catalpa bignonioides) contengono un principio amaro, la catalpina, con proprietà espettoranti e antiasmatiche che trovano applicazione nella cura della pertosse e dell’asma. Questa bignoniacea di origine nordamericana, importata da circa tre secoli, è dotata inoltre di altre proprietà terapeutiche e cioè febbrifughe, antisettiche e astringenti.