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Le piante medicinali Cap. III

Poligala nostrale Lingua cervina

La poligala nostrale, o nostrana, o volgare (Polygala vulgaris), così detta in contrapposizione alla poligala virginiana, è una pianta erbacea perenne, appartenente alla famiglia omonima, diffusa in Europa, Asia occidentale, Africa settentrionale e comune da noi nei luoghi soleggiati ed erbosi come bordi delle vie, pascoli, scarpate. È munita, nelle piante annose, di numerosissimi rami, generalmente ascendenti e di taglia assai variabile, da pochi centimetri fino a mezzo metro.

Fiorisce principalmente in aprile-maggio, ma piante isolate continuano poi a fiorire fino all’autunno. I fiori sono generalmente di colore rosso-violaceo ma ne esistono anche di colore bianco-gialliccio, verdognolo o azzurro; talora fiori di diverso colore si trovano anche sulla stessa infiorescenza. La droga è data dalla radice, contorta, irregolare, poco ramificata, molto dura e tenace, a corteccia sottile e legno bianco e compatto. Emana un odore particolare di salicilato di metile. Si usa intera munita delle basi dei fusti, ma talvolta è richiesta anche la pianta intera fiorita.

Sotto la stessa denominazione commerciale viene inclusa comunemente anche la Polygala amara, presente in Europa e reperibile nel nostro paese nei prati delle Alpi e dell’Appennino settentrionale ma molto meno diffusa della volgare e che si usa anche come amaro-aromatico. Le poligale, oltre ai principi amari propri di Polygala amara, contengono nelle parti aeree saponine, poligalitolo e nelle radici ancora poligalitolo, gaulterina e piccole quantità di zuccheri diversi.

Analogamente alle altre droghe a contenuto saponinico la poligala nostrale esplica, a dosi elevate, azione tendente a favorire abbondante salivazione, irritazione gastrica, nausea e vomito e, a dosi terapeutiche, azione espettorante indicata in casi di asma e bronchiti. Ha inoltre azione emetica.

Analoghe azioni esplica la poligala virginiana (Polygala senega), pianta erbacea perenne originaria di svariate regioni del Canada e degli Stati Uniti d’America, particolarmente della Virginia.
Proprietà simili vengono riconosciure, nella medicina popolare, a Scolopendrium vulgare, o Phyllitis scolopendrium, la lingua cervina, una delle più belle e più grandi tra le nostre felci.

È diffusa in gran parte dell’emisfero boreale; nel nostro paese si trova all’imboccatura di pozzi e caverne, in certe vallecole particolarmente fresche e ombreggiate, nel sottobosco o tra le fessure delle rocce sulle Alpi e sugli Appennini settentrionali. Appartiene alla famiglia delle Polipodiacee. Se ne usano le foglie – grandi, praticamente inconfondibili – che contengono tannino e mucillagini e che vengono usate in infuso. Esplicano azione espettorante per catarri bronchiali, diuretica, astringente intestinale e cicatrizzante.

Edera Liquirizia Timo serpillo

Dotata di proprietà espettoranti è l’edera (Hedera helix), liana comunissima nei boschi e nei luoghi ombreggiati dell’Europa, dell’Asia e Africa settentrionali e comunissima anche nel nostro paese nel sottobosco, su rocce, muri, epifita sugli alberi (è il simbolo della fedeltà e “dove mi attacco muoio” è il suo romantico motto) oltreché spesso coltivata – anche in varie forme orticole – a scopo ornamentale.

Appartiene alla famiglia delle Araliacee. I suoi frutti neri, che maturano nell’inverno, sono velenosi per l’uomo ma avidamente appetiti dagli uccelli frugivori (merli, tordi) per i quali costituiscono una preziosa fonte di cibo durante l’avversa stagione. La droga, data dalle foglie e dai rami, contiene saponine – alfa, beta e gamma-ederina, ederacoside – rutina, acidi caffeico e clorogenico, zuccheri, ossalato di calcio.

L’edera è nota fin dall’antichità ed è ampiamente usata nella medicina popolare come emetico antinevralgico, in molte manifestazioni artritiche e soprattutto come balsamico ed espettorante in casi di bronchiti catarrali croniche. Nell’uso popolare l’edera ebbe anche fama di emmenagogo.

La liquirizia (Glycyrrhiza glabra, etimologicamente la “dolce radice”) è una pianta erbacea perenne originaria dell’Europa sud-orientale e dell’Asia minore, presente nel nostro paese allo stato subspontaneo talora al nord, come alle foci del Reno, in Romagna, e più frequentemente al centro e al sud, specialmente nei luoghi sabbiosi vicino al mare.

Appartiene alla famiglia delle Leguminose-Papilionate. La droga è data da radici e stoloni – Ltqueritiae radix – messi in commercio in caratteristici fascetti (erano spariti, ora ritornano nelle drogherie e nelle tabaccherie) e dal succo che si trova in commercio in pani o nelle cosiddette “bilie”, bastoncini cilindri con impresso il marchio del produttore.

La droga contiene acido glicirrizico, costituito a sua volta da acido glicirretico e da due molecole di acido glucuronico, glicirrizina, cioè il sale di potassio, calcio e magnesio dell’acido glicirrizico, acido glabrico, flavonoidi – liquiritina, isoliquiritina e altri – vitamine del gruppo B, resine, zuccheri e molte altre sostanze. Nota già ai medici dell’antico Egitto e dell’Oriente, la liquirizia venne usata anche dai medici dell’antichità classica.

Dioscoride scriveva che « il succo giova nei casi di raucedine, è un buon medicamento nei bruciori di stomaco, sotto forma di pomata si usa nella medicazione delle ferite. » Erano dunque conosciute le proprietà emollienti, bechiche ed espettoranti da sempre attribuitele, mentre più recenti ricerche le riconoscono anche proprietà antisettiche, antispastiche e soprattutto antiulcerose. Gli estratti di liquirizia sono poi ampiamente usati nella tecnica galenica e nell’industria dolciaria.

Thymus serpyllum, il timo serpillo, o serpillo, o serpolino è una piccola pianta erbacea perenne, assai polimorfa, diffusa in tutto l’emisfero settentrionale e assai comune anche nelle nostre regioni nei luoghi aridi e assolati. Appartiene alla famiglia delle Labiate. Contiene olio essenziale ricco di carvacrolo, timolo, borneolo, terpeni, tannino, saponine.
Si usa come aromatico, antisettico intestinale e bronchiale, colagogo, coleretico e anche come balsamico ed espettorante.

Passiflora Salice bianco Luppolo

La passiflora (Passiflora incarnata) è originaria delle regioni meridionali degli Stati Uniti e viene talora coltivata anche nel nostro paese a scopo industriale. Appartiene alla famiglia delle Passifloracee. Il suo nome di “fiore della passione” è dovuto alla credenza popolare che vede raffigurata nelle curiose ed insolite strutture del fiore la passione, appunto, di Cristo: così la corona di filamenti rievoca la corona di spine; gli stami, i martelli; gli stili, i chiodi.

La droga è data da rami, fiori e foglie raccolti prima che inizi la fruttificazione. Contiene vari alcaloidi – arnina, arninina, arnolo – flavonoidi, glucosidi e sostanze amare. Esplica un’efficace azione sedativa nei casi di eretismo, insonnia, stati ansiosi. E dotata anche di proprietà ipotensive.

Dei numerosi salici conosciuti, si ritiene siano dotati di proprietà medicinali soprattutto Salix alba, presente nella nostra flora, e Salix nigra, del Nordamerica. Salix alba, il salice bianco o salice da pertiche – giacché coi rami si fanno pertiche da fagioli e manici di attrezzi agricoli – è un albero con foglie caratteristicamente argentate e spesso alterato nella linea dalla pratica della “capitozzatura”.

Diffuso pressoché in tutto l’emisfero boreale nei boschi ripariali e lungo i fiumi, è da noi coltivato soprattutto in alcune zone della Pianura Padana a formare caratteristiche alberature ai bordi dei campi. Appartiene alla famiglia delle Salicacee. La droga è data dalla corteccia che va prelevata dai rami di 2-3 anni. Contiene il glucoside salicina – presente del resto in molti altri salici e pioppi – e tannino. Il salice bianco possiede proprietà antipiretiche e antireumatiche dovute alla presenza, nella salicina, di acido salicilico, ma soprattutto proprietà sedative e anafrodisiache.

Il luppolo (Humulus lupulm), della famiglia delle Urticacee, è una pianta erbacea perenne assai diffusa nell’emisfero settentrionale e largamente coltivata in diversi paesi dell’Europa centrale perché usata per aromatizzare la birra. In Italia si trova abbastanza frequentemente lungo le siepi, ai bordi delle strade, lungo i fossati, nell’alveo dei fiumi e generalmente nei luoghi umidi e pingui.

La droga è data dalle infiorescenze femminili foggiate a “coni” grossolanamente simili a quelli delle Conifere e, in particolare, dalle ghiandole assai abbondanti all’ascella delle brattee e che costituiscono il “luppolino”. Contiene resine costituite a loro volta da numerosi principi tra i quali l’umulone e il lupulone – olio essenziale costituito da vari terpeni tra i quali quello già definito umulene è identico al cariofillene dei chiodi di garofano.

L’olio essenziale contiene ancora alcoli, acidi organici liberi ed esterificati ed altre sostanze tra le quali flavonoidi ed antociani. Pare che il luppolo, almeno come pianta medicinale, non fosse conosciuto nell’antichità e Plinio ne fa cenno solo come pianta alimentare: anche oggi, resto, in parecchie zone si usano i germogli alla stregua degli asparagi. Come pianta medicinale fu nota invece a Paracelso, a Mattioli e a taluni medici arabi. Nel secolo scorso il luppolo veniva già ampiamente usato come sedativo nervoso ed anafrodisiaco. È dotato anche di proprietà batteriostatiche e di attività estrogena.

Farfaraccio Lavanda Valeriana

Consultando testi di erboristeria e di botanica farmaceutica pubblicati fino a una ventina di anni fa, chiunque interessato a sapere qualcosa sul farfaraccio (Petasites officinali}), una composita erbacea a ampia diffusione mondiale, poteva ritenersi convinto da un’esauriente letteratura che i principi attivi contenuti nella pianta esplicavano un’azione diuretica, diaforetica, antiartritica, astringente e stomatica, nonché emmenagoga, antielmintica e perfino antiasmatica.

Secondo Dioscoride e Galeno le proprierà farmacologiche dei rizomi e delle foglie erano assai efficaci nel curare piaghe e ulcere. L’impiego del farfaraccio, secondo queste direttive, è pressoché scaduto nella nostra epoca, mentre un’altra utilizzazione, legata a proprietà recentemente scoperte, ha dato buoni risultati.

Attualmente infatti è valorizzata l’azione antispastica e sedativa di questa pianta, studiata dapprima su soggetti ipertesi nevrotici e su donne in climaterio, successivamente in casi di stati ansiosi generici o di ipereccitabilità infantile. Gli estratti a base di Petasites officinali* si comportano in modo da regolare la pressione, alzandola o abbassandola rispettivamente in casi di ipotensione o ipertensione.

La lavanda (Lavandaia spica, o Lavandaia officinalis) è una labiata diffusa nei paesi del Mediterraneo occidentale. L’essenza che si ricava dalle sommità fiorite è largamente impiegata in profumeria per la preparazione di profumi, saponi e altri prodotti che interessano la cosmetica. La stessa essenza inoltre contiene principi attivi con azione antispasmodica, bechica, vulneraria e antisettica, nonché stomachica, colagoga, carminativa e diaforetica.

Ancor oggi i vari autori non sono d’accordo nello stabilire a quale principio attivo sia dovuta la blanda azione antispasmodica, sedativa e ipotensiva della valeriana. Secondo recenti esperienze si ritiene che essa provenga non da uno, ma da un insieme di principi attivi, vale a dire «dal sinergismo di fattori non tutti conosciuti, né chimicamente precisabili» (Negri).

Notizie riguardanti una valeriana, probabilmente Valeriana Phu, ci vengono fornite da Plinio e da Dioscoride, mentre la vera valeriana, Valeriana officinali!, entra nella pratica terapeutica con Isaac Judaeus, medico ebreo vissuto nel IX secolo dopo Cristo. Nel corso del medioevo la fama della valeriana si diffonde rapidamente e l’impiego della droga trova applicazioni nella cura delle più svariate malattie: avrebbe risolto, a quel che si tramanda, casi di tisi, pleurite, perfino di gotta; si consigliava per combattere la tosse, la flatulenza, l’asma, nonché per alleviare il dolore dovuto al morso di animali velenosi.

Bisogna arrivare alla fine del XVI secolo perché la valeriana si affermi come antispasmodico e sedativo, per merito, come pare, del napoletano Fabio Colonna che sosteneva di essere guarito dall’epilessia grazie alle proprietà medicinali di questa pianta. Altri ne seguirono l’esempio, e anche con buoni risultati.

Venendo ai nostri giorni la valeriana, o meglio la sua parte sotterranea, agisce come antispasmodico, sedativo, blando narcotico, antiepilettico e carminativo; la sua azione è poco violenta e non duratura nel tempo in quanto i suoi componenti, tra cui un olio essenziale di complessa struttura, vengono facilmente eliminati per via renale e cutanea.

Valeriana rossa Bocca di lupo Limoncina

La cosiddetta valeriana rossa (Centranthus ruber) è una grossa pianta erbacea perenne propria delle stazioni rupestri o dei vecchi muri vicino al mare, intorno ai laghi prealpini, e dell’Italia centro-meridionale. Cresce allo stato spontaneo, ma potrebbe anche essere coltivata a scopo ornamentale: i fusti sono alti mezzo metro e anche più, con foglie opposte, glauche e carnosette; i fiori, rossi o rosati, sono raccolti in corimbi che formano a loro volta una grossa pannocchia terminale. Se ne usa il rizoma, munito di grosse radici, che emana profumo di valeriana e ne possiede, sostanzialmente, le stesse proprietà sedative e antispasmodiche.

La bocca di lupo (Melittis melissophyllum), appartenente alla famiglia delle Labiate, è una pianta erbacea perenne dell’Europa centro-meridionale e abbastanza comune nei nostri boschi, dove fiorisce in aprile-maggio. Meriterebbe anche di essere coltivata per la bellezza dei suoi fiori, ma inspiegabilmente non lo è.

E bene fare attenzione alle confusioni nomenclaturali: Melittis melissophyllum non ha nulla a che fare con Antirrhinum majus, della famiglia delle Scrofulariacee, che è detta volgarmente bocca di leone, ma talora anche bocca di lupo.
Della bocca di lupo si usa l’erba intera che appena raccolta è quasi inodora, ma essiccata emana un intenso odore di cumarina e, appunto per questo suo contenuto, viene usata come sedativo e antispasmodico.

Inoltre, pare eserciti una leggera ma utile azione collaterale anestetica e stupefacente. I suoi infusi possono essere vantaggiosamente usati da
persone delicate come bimbi o vecchi, o soggette a disturbi neurovegetativi.
La bocca di lupo esplica inoltre una azione diuretica e antisettica delle vie urinarie.

La limoncina, o cedrina, o erba Luigia, o verbena odorosa (Lippiacitriodora) è un delizioso, piccolo cespuglio della famiglia delle Verbenacee originario dell’America meridionale e coltivato da noi a scopo ornamentale più spesso in vaso (nelle regioni fredde settentrionali va ricoverato in aranciera) oppure in piena terra purché protetta alla base constrame o foglie: morirà la parte aerea ma ributterà vigorosamente al piede.

Se ne usano le foglie che vanno raccolte subito prima della fioritura. Esse hanno sapore amaro e piccante e, specialmente se soffregate, emanano un grato odore; vengono usate infatti anche per profumare gradevolmente la biancheria. Essiccate, le foglie si accartocciano a tubo e così le troviamo in commercio. Contengono olio essenziale, costituito soprattutto da citrale, terpeni, geraniolo, e due principi specifici, la verbenina e il verbenone.

La limoncina possiede proprietà soprattutto antispasmodiche e calmanti del sistema nervoso, ma anche stimolanti e diuretiche. Si usa in infuso (5-10 grammi di foglie per decilitro d’acqua) per favorire la digestione e anche per aromatizzare il té. In Francia dove è ben nota e largamente usata – i francesi la chiamano verveine odorante – la limoncina viene correntemente servita anche nei bar e nei caffè. La limoncina è una vecchia pianta odorosa del buon tempo antico. Se non l’avete, procuratevela. Vi privereste inutilmente di una piccola gioia!

Lauroceraso Mandorlo amaro

II lauroceraso (Prunus laurocerasus) è un arbusto o alberetto di modesta taglia (4-5 m) a foglie lucide e sempreverdi, originario dell’Asia occidentale e coltivato estesamente da noi a scopo ornamentale. Nei giardininon fiorisce spesso, anche perché disturbato dalle frequenti potature, ma le piante lasciate libere nel loro sviluppo fioriscono abbondantemente in primavera e producono numerose drupe nere, ovali e appuntite, grosse come olive.

Appartiene alla famiglia delle Rosacee e malgrado la notevole differenza, capita talvolta di vederlo confuso con l’alloro. La droga è data dalle foglie il cui tempo balsamico cade nell’estate (giugno-agosto). Stropicciate allo stato fresco emanano un caratteristico odore di mandorle amare; nel secco sono inodori. Le foglie contengono zuccheri, tannino e un glucoside, la laurocerasina o prunolaurasina, che per effetto di una emulsina si scinde in acido cianidrico, aldeide benzoica e glucosio. Distillando le foglie fresche di lauroceraso con alcool etilico si ottiene la cosiddetta acqua coobata di lauroceraso dotata di azione antispasmodica e sedativa ed utilizzabile in caso di tossi nervose e di spasmi respiratori o circolatori.

Nell’uso familiare il lauroceraso può essere impiegato per aromatizzare bevande a base di latte e budini e, sia pure con molta cautela, per preparare un liquore digestivo. Sulla velenosità della pianta si pone sempre giustamente l’accento ma non è noto che qualcuno si sia avvelenato rosicchiandone foglie e frutti; pare invece che nel romantico ‘800 qualche ghiottone abbia accusato sintomi di avvelenamento per avere mangiato budini o dolci eccessivamente aromatizzati col lauroceraso.

Pure ricco di acido cianidrico e di aldeide benzoica è il seme del mandorlo amaro. Il mandorlo (Prunus communis) è una pianta arborea, parimenti appartenente alla famiglia delle Rosacee, originario dell’Asia occidentale, estesamente coltivato nel bacino mediterraneo e in Italia soprattutto in Puglia e nelle altre regioni meridionali. Nel suo ambito se ne distinguono tre forme: quelle a endocarpo duro e legnoso con seme dolce (forma dulcis, mandorle dolci), con seme amaro (forma amara, mandorle amare) o a guscio fragile e spugnoso (le cosiddette “zaccarelle”).

Sia dalle mandorle dolci che dalle amare si ottiene un olio delicatissimo usato come lassativo e regolatore intestinale, per preparazioni farmaceutiche e per la cura delle scottature. Dalle mandorle dolci si ricavano anche sciroppi rinfrescanti come la classica orzata. Le mandorle amare, poi, in particolare, contengono il glucoside amigdalina che per azione dell’enzima emulsina si scinde in acido cianidrico, aldeide benzoica e glucosio.

Dalla poltiglia dei semi, residua della estrazione dell’olio, per distillazione con aggiunta di acqua e di alcool si ottiene l’acqua distillata di mandorle amare, pure dotata di proprietà sedative e antispasmodiche ed utilizzabile nella terapia di tossi nervose, insonnia, stati spasmodici, vomito incoercibile. Tale acqua distillata è detta impropriamente oleum amigdalarum amararum. In materia di mandorle amare, si faccia attenzione agli avvelenamenti che derivano, specialmente nei bambini, dalla ingestione della mandorla di semi di altre Rosacee come pesco, albicocco, susino e per la incauta preparazione di amaretti o croccanti usando tali mandorle.

Anemoni

Al genere Anemone appartiene un buon numero di specie delle più belle non solo tra quelle che in abbondanza crescono spontanee, ma anche tra quelle che copiosamente vengono coltivate a scopo ornamentale per abbellire case e giardini. Tutti gli anemoni sono piante fortemente velenose ma, come sovente accade in erboristeria, sono pure dotati di notevoli virtù terapeutiche.

Gli anemoni sono conosciuti fin dall’antichità, anzi sul loro conto sono fiorite numerose interpretazioni mitologiche che hanno avuto per protagonisti Zefiro, la ninfa Anemone, doride, Adone e Venere.
Il termine generico Anemone è di chiara derivazione greca; prende origine infatti da anemos, cioè vento. Gli studiosi però, come spesso accade quando le spiegazioni risultano troppo facili, si sono, per così dire, divertiti a dare interpretazioni diverse al vocabolo anemos riferito al nostro fiore.

Questo alla fine ebbe l’appellativo poetico di “fiore del vento”, ma si disse dapprima che tale qualifica ben gli si addiceva in quanto era il vento che generalmente sciupava le variopinte corolle formate da eleganti sepali petaloidi; in un secondo tempo venne sostenuto che anemos non era propriamente riferito al fiore o alla caducità dello stesso dovuta al vento, ma piuttosto al luogo o ai luoghi preferiti da questo gruppo di piante, in zone perlopiù esposte e battute dal vento. Quest’ultimo elemento comunque, in un caso o nell’altro, partecipa sempre e anche attivamente alla vita di questi fiori.

Gli anemoni godono fama per la loro bellezza da molti secoli e numerosi autori ne parlano ripetutamente nelle loro opere. Così Plinio il Vecchio, Teocrito, Ovidio; altri, come Ippocrate e Dioscoride, ne esaminano invece il lato medicinale. Vi è da dire in generale che tutti gli anemoni, e quindi anche quelli che sono raffigurati nella tavola a fronte, contengono più o meno gli stessi principi attivi ed i loro preparati svolgono pertanto la medesima azione. Anemone pulsatilla, la pulsatilla, Anemone nemorosa, Anemone ranunculoides, Anemone bepatica, l’erba trinità, sono le quattro specie che più frequentemente compaiono nei testi di farmacologia.

Della pulsatilla ci parla per la prima volta il Mattioli nel XVI secolo, mentre dell’Anemone hepatica si sa che se ne parlava già nel medioevo, ma anche in questo caso per avere notizie più esaurienti bisogna attendere il Mattioli che la descrive intorno alla metà del 1500.

La forma delle foglie e il colore delle stesse sulla pagina inferiore, che richiamano la forma e il colore del fegato, hanno contribuito a creare attorno a questa pianta la fama di essenza dalle miracolose capacità di guarire le malattie del fegato, secondo la famosa teoria della segnatura per la quale le piante medicinali recavano nella forma qualche segno della loro efficacia. La droga è costituita dall’intera pianta e in linea di massima i principi attivi sono tali maggiormente finché l’essenza è allo stato fresco.

Vi sono contenuti anemonina, acido anemonico, tannino, una sostanza resinosa, una saponina e acido isoanemonico. Polveri, infusi, tinture, estratti fluidi hanno proprietà narcotico-sedative, diuretiche, espettoranti e diaforetiche e pertanto possono costituire un efficace rimedio, come dice il Negri, in « casi di nevrosi dipendenti dalla ipereccitabilità del simpatico, negli spasmi dolorosi, specialmente nelle manifestazioni della sfera genitale, nelle nevralgie, nell’emicrania »; inoltre la loro somministrazione ha dato risultati positivi in soggetti colpiti da idropisia, da tosse canina o da tossi spasmodiche.

Panace Coca Chiodi di garofano

Tra le numerose piante fornitrici di droghe utilizzabili come sedativi, analgesici e anestetici locali possiamo segnalare la panace (Heracleum sphondilium), appartenente alla famiglia delle Ombrellifere. È una pianta erbacea perenne, piuttosto polimorfa – anche nel nostro paese se ne riconoscono diverse varietà – diffusa pressoché in tutto l’emisfero settentrionale e reperibile da noi in boschi e prati freschi del settentrione. La droga, costituita dalle parti verdi, contiene sostanze acri e irritanti ed un olio essenziale. Nella medicina popolare, sotto forma di pozione di polvere o anche come alcolaturo, viene usata come sedativo, analgesico e anestetico locale.

La coca, o coca boliviana (Erytroxylon coca) è un arbusto di taglia mediocre (3-4 m) originario dell’America meridionale tropicale (Bolivia e Perù), forse ormai scomparso allo stato spontaneo e coltivato anche in altri paesi tropicali – Giava, Ceylon – nelle varietà bolivianum, spruceanum, novogranatense, da taluni autori ritenute buone specie. Appartieni alla famiglia delle Eritrossilacee. La droga è data dalle foglie, che contengono svariati alcaloidi, e cioè la cocaina e composti analoghi, la igrina e cuscoigrina, e inoltre nicotina, acido clorogenico, colina, cere e olio essenziale.

La coca è usata da tempi antichissimi dagli indigeni boliviani, mescolata a calce, come masticatorio, per attenuare gli stimoli della fame e della sete e, in genere, per aumentare la resistenza ad ogni sorta di sforzi e di privazioni. Il suo principale alcaloide, la cocaina, è stato poi ampiamente usato come anestetico locale. Il suo impiego, tuttavia, trova controindicazioni nella sua azione stupefacente e nella sua elevata tossicità. La coca viene utilizzata terapeuticamente come stimolante ed eccitante generale, e anche come stomachico, specie se associata ad altre droghe ad azione analoga come le genziane, la china, la cola. Ancora come leggero anestetico è usata, in forma di collutorio, per la cura delle gengiviti; entra inoltre nella terapia di gastralgie e del vomito incoercibile.

Il ricordo, sempre spiacevole, di una seduta dal dentista sarà, forse, attenuato da un altro ricordo, quello del grato sapore dell’eugenolo ((contenuto nei cosiddetti chiodi di garofano fornitici da Eugenia caryopbyllatt o Caryophyllus aromaticus.

È un bell’albero, appartenente alla famiglia delle Mirtacee, originario delle Molucche e delle Filippine e attualmente coltivato in molte regioni’ tropicali e soprattutto a ZanzJìbar, Madagascai, Seychelles, Mauritius.

La droga è data dai fiori non ancora dischiusi, che contengono olio essenziale ricco soprattutto di eugenolo e poi ancora cariofillene, salicilato di metile, svariati alcoli, chetoni e aldeidi. I chiodi di garofano – che non hanno nulla a che fare con i garofani coltivati, appartenenti a tutt’altro genere (Diantbus) e a tutt’altra famiglia (Cariofillacee) – si usano ampiamente in cucina e in liquoreria, ma l’olio essenziale esplica anche azione analgesica locale. L’essenza è dotata inoltre di proprietà antisettiche e viene anche utilizzata, come correttivo, nella tecnica galenica.

Agno casto Ninfea Ruta

Proprietà emmenagoghe e anafrodisiache sono riconosciute da parecchi secoli all’agno casto (Vitex agnus castus), cespuglio della famiglia delle Verbenacee: i principi attivi sono presenti nei frutti e nelle foglie. Le spiccate virtù anafrodisiache di questa pianta si possono del resto anche intuire dal nome corrente italiano e forse ancor più dall’altro volgare di “pepe dei monaci”; presso alcune comunità monastiche infatti l’agno casto veniva probabilmente coltivato per frustrare gli impulsi sessuali.

Le proprietà medicinali dell’agno casto sono presenti nelle sommità fiorite, nelle foglie e nei frutti che contengono tra l’altro castina, viticina, vitexina e vitexinina.
Oggi, cadute in disuso le utilizzazioni anafrodisiache, l’agno casto è considerato pianta dotata di virtù eupeptiche, emmenagoghe, antispasmodiche, aperitive e soporifere.

Anche la candida ninfea (Nymphaea alba) dei luoghi acquatici dell’Europa, dell’Asia occidentale e dell’Africa boreale, spontanea in laghetti, stagni e paludi e molto spesso coltivata nelle vasche di parchi e giardini, fin dall’antichità ha goduto fama di pianta anafrodisiaca, o meglio di essere un efficace sedativo nell’eccitamento sessuale. L’azione è dovuta principalmente ad un alcaloide, la nufarina, contenuto nel rizoma; tale sostanza è alla base nella preparazione di un infuso e di un estratto acquoso e fluido.

La ruta (Ruta graveolens), pianta suffruticosa della famiglia delle Rutacee, è un vegetale da prendere con le… molle, vale a dire con mille precauzioni.
Come sovente accade, sono proprio le dosi eccessive che possono procurare gravi disturbi o casi di avvelenamento.
Oltre a essere un eccellente emmenagogo, un buon antiemorragico e antispasmodico, la ruta impiegata in dosi elevate, nel periodo della gravidanza, diventa un terribile abortivo. Per tale motivo alcuni casi sospetti vengono valutati da un punto di vista medico-legale, anche perché, proprietà abortive a parte, non è difficile incorrere in avvelenamenti, anche mortali, accompagnati da convulsioni, vertigini e gastro-enteriti acute.

Alla ruta si riconoscono inoltre discrete proprietà vermifughe. Sono molte e di vecchia data le notizie riguardanti le ruta.
Sarebbe stato addirittura il re del Ponto Mitridate ad intuirne le proprietà terapeutiche; così infatti ci tramanda Plinio.

Secondo Teofrasto la ruta possedeva capacità atte ad inibire la procreazione, tanto che era ritenuta anafrodisiaca. Del resto, molto più recentemente, cioè nel medioevo, per le stesse virtù medicinali anafrodisiache, veniva coltivata nei campicelli dei monaci dell’epoca che, per conservarsi casti, erano soliti fare uso di ruta nei loro menù.

Le parti della pianta con spiccate caratteristiche officinali sono rappresentate dalle foglie, che devono venire raccolte un po’ prima della fioritura e essere messe a seccare velocemente all’ombra. Esse contengono tutina, gomme, sostanze tanniche e resinose, acido malico e amido, ma il principio attivo fondamentale è rappresentato da un olio essenziale, tossico, di struttura assai complessa in cui entra in rilevante percentuale il metilnonilchetone.

Stramonio Giusquiamo Belladonna

Lo stramonio (Datura stramonium), appartenente alla famiglia delle Solanacee, contiene principi attivi di grande importanza farmacologica che, tuttavia, possono risultare molto tossici. Foglie e semi svolgono azioni di tipo antinevralgico, antispasmodico, antiasmatico e antireumatico dovute alla presenza di numerosi alcaloidi, il cui insieme prende il nome di daturina. Le foglie di stramonio di prima scelta sono utilizzate per confezionare sigarette antiasmatiche, ottime calmanti e regolatrici del ritmo respiratorio.

Le virtù medicinali del giusquiamo (Hyosciamus niger), una solanacea del vecchio mondo, erano conosciute al tempo dei babilonesi e degli egiziani, dei greci e dei romani. Nel 1500 il giusquiamo, con il nome di “erba del mal di denti” o “erba di Santa Apollonia”, veniva largamente usato per alleviare il dolore dei denti.

Nel giusquiamo è presente giusquiamina, che nel processo di essiccamento in parte si trasforma in atropina, e la scopolamina, un alcaloide che impartisce alla droga un’azione ipnotica. Infusi, estratti fluidi, tinture a base di giusquiamo vanno preparati con estrema cautela e somministrati sotto controllo medico: hanno proprietà antispasmodiche, calmanti, sonnifere, analgesiche e midriatiche, cioè capaci di provocare la midriasi o dilatazione della pupilla; sono efficaci nelle tossi spasmodiche, nelle nevralgie, nelle bronchiti e nell’insonnia.

Atropa belladonna, la belladonna, solanacea spontanea dell’Europa meridionale, dell’Asia e dell’Africa boreale, deve il suo nome a Atropos, la parca che aveva il compito di recidere il filo della vita, e all’attributo veneziano “belladonna”: infatti le donne italiane, e soprattutto veneziane del XVI secolo, ne usavano il succo delle bacche come belletto e impiegavano come cosmetico l’acqua che da essa si distillava.

L’uso terapeutico vero e proprio della belladonna risale a qualche tempo dopo. Foglie e radici costituiscono la parte interessante la medicina, ma praticamente tutta la pianta contiene principi attivi anche molto tossici. Le bacche violacee della belladonna hanno causato e causano ancora gravi casi di avvelenamento: l’ingestione da una a quattro bacche può arrecare la morte secondo l’età dell’individuo.

I principi attivi fondamentali sono forniti da due alcaloidi: la giusquiamina – isomero levogiro dell’atropina – che si trova in maggiore quantità, e l’atropina, la cui dose, minima nella pianta vivente, aumenta con l’essiccamento per trasformazione della giusquiamina. L’azione farmacologica della belladonna è piuttosto complessa: dapprima paralizza le fibre nervose che interessano i muscoli lisci, successivamente diminuisce fino ad arrestare le secrezioni ghiandolari, aumenta la pulsazione cardiaca avendo eccitato prima e paralizzato poi il vago; ha capacità pure di causare alla fine forti eccitazioni cerebrali.

Per queste ragioni la belladonna è usata come antispasmodico nei casi di angine, asma, coliche epatiche e nefritiche, gastralgie; è impiegata per provocare la diminuzione di eccessive secrezioni sudorifere, salivari, gastriche; è efficace per arrestare « certi movimenti patologici, per esempio tremore nei postumi di encefalite, vomito » (Lodi). Provocando infine l’atropina la dilatazione della pupilla, la belladonna trova largo impiego in oculistica.

Coridale Papavero da oppio

La coridale (Corydalis cava) è una piccola, graziosa pianta erbacea perenne tuberosa, propria dell’Europa centrale e meridionale. Appartiene alla famiglia delle Papaveracee, sottofamiglia Fumarioidee. Produce fiori violetti o bianchi e fiorisce a primavera. Nel nostro paese si trova nei luoghi ombreggiati, nei boschi, qualche volta nei prati o nelle siepi, più frequentemente al nord, più raramente al sud, dove preferisce le faggete d’alta montagna.

La droga è data dai tuberi, grossi quanto una noce e cavi internamente. Essi contengono numerosissimi alcaloidi raggnippati in tre gruppi: aporfina, protoberberina, protopina. La droga deve la sua attività principalmente a un alcaloide del primo gruppo, la bulbocapnina, dotata tuttavia di maggiore interesse farmacologico che terapeutico.
Esplica comunque azione narcotica e calmante nei confronti del morbo di Parkinson e azione anestetica in luogo della morfina.

Il papavero da oppio

(Papaver somniferum) è una pianta erbacea annuale originaria della regione mediterranea, coltivata e talora naturalizzata in molti altri luoghi. Si tratta di un’entità abbastanza polimorfa nel cui ambito si può distinguere una varietà setigerum, presente nel nostro paese nei seminativi e negli incolti delle regioni tirreniche e meridionali, dalla quale si ritiene siano derivate con la coltivazione le altre due varietà, e cioè il papavero bianco (varietà album) a fiori bianchi e semi chiari, e il papavero nero (varietà horteme, o Papaver nigrunì) a semi scuri, a fiori spesso doppi o stradoppi, coltivato sia a scopo ornamentale sia per i semi, ricchi di olio, con cui vengono aromatizzati pane, grissini, biscotti.

Da un punto di vista farmacologico la pianta che più interessa è il papavero bianco, coltivato soprattutto in Persia, in India, Turchia, Egitto e Marocco e, in Europa, in Grecia, Francia, Jugoslavia, Ungheria e Bulgaria. La droga è data dalle capsule – botanicamente dette “treti”, merceologicamente “teste” – che si possono raccogliere mature o ancora verdi; in tal caso le capsule risultano più ricche di principi attivi.

Praticando alcune incisioni superficiali con particolari rasoi bene affilati sulle capsule ancora immature si ottiene la fuoriuscita del latice sotto forma di gocce biancastre che rapprendendosi imbruniscono. Raccolte, esse vengono compresse a formare i pani di oppio di colore nerastro. Sia le capsule che l’oppio contengono numerosissimi alcaloidi classificabili in sei gruppi fondamentali. Di essi i più noti sono quelli del gruppo derivare dalla benzilisochinolina, quali la papaverina, la laudanina, la codamina; quelli del gruppo della morfina quali, appunto, la morfina e la codeina; altri ancora di costituzione non ben definita come la papaveramina.

L’uso del papavero da oppio risale a tempi remoti: Galeno individua le origini nella preistoria, mentre gli egiziani lo chiamavano « farmaco dell’oblio e dell’insensibilità ». La sua azione analgesica è dovuta principalmente alla morfina; anche gli altri alcaloidi, tuttavia, contribuiscono all’azione farmacologica. L’oppio può essere usato come costipante in caso di diarrea incoercibile, associato a disinfettanti intestinali per prolungarne l’azione. Per le sue ben note proprietà stupefacenti l’oppio inoltre è usato come voluttuario specialmente presso alcuni popoli orientali: per questo la legge prescrive particolari cautele e limitazioni per il commercio sia dell’oppio che dei suoi derivati.

Caffè Té Cola

L’Abissinia è quasi certamente la regione d’origine del caffè (Coffea arabica): a dimostrarlo basterebbe la parola coffa o koffa, con cui si indica una regione dell’Alta Etiopia. Da qui il caffè giunse ben presto in Arabia, in Egitto, nel Sudan e a Costantinopoli, da dove ad opera dei veneziani sul finire del XVI secolo raggiunse l’Italia e l’Europa. Spetta poi agli olandesi il merito di avere introdotto agli inizi del XVIII secolo questa pianta nelle loro colonie dell’America centro-meridionale, dove trovò un ambiente ancor più favorevole di quello del luogo d’origine, tanto che ancora oggi i principali produttori di caffè si trovano proprio nel continente americano: Brasile, Colombia, Messico.

La parte utilizzata della pianta è il seme torrefatto che costituisce la droga. Il principale componente e il miglior principio attivo è la caffeina presente in media dallo 0,3 all’1,9% secondo i vari tipi di caffè tostati; inoltre merita un cenno il caffeone, olio etereo di odore gradevole al quale deve appunto l’aroma il caffè durante il processo di torrefazione.

L’azione della caffeina risulta piuttosto complessa: essa infatti, oltre che i centri nervosi e in particolare il cervello, eccita anche la funzione circolatoria rinforzando la contrazione cardiaca, aumentando la pressione sanguigna e diminuendo la frequenza del polso. L’uso del caffè sotto forma di infuso risulta efficace in qualsiasi stato di depressione nervosa e aiuta a superare la sonnolenza. Questa azione stimolante è ottenuta con piccole e medie dosi; al contrario dosi elevate, oltre ad altri disturbi dovuti a una vera e propria intossicazione, provocano uno stato di depressione.

Un altro nervino di grande importanza e diffusione è il té (Tbea sinensis), una cameliacea probabilmente nativa della Cina sud-occidentale e dell’Indocina settentrionale. Si sa che il té, o meglio l’infuso ottenuto con le sue foglie, era già conosciuto dai cinesi fin dal VI secolo dopo Cristo e dai giapponesi intorno all’anno 1000. In Europa il té è stato introdotto dagli olandesi nel XVII secolo.

In commercio attualmente sono presenti numerose qualità di té che assumono il nome del luogo di provenienza; inoltre è interessante ricordare che mentre nei paesi orientali viene generalmente consumato il té “verde” – ottenuto facendo torrefare le foglie dopo la raccolta – in Europa e nei paesi anglosassoni si consuma di preferenza il té “nero”, le cui giovani foglie vengono lasciate a seccare dopo un processo di fermentazione.

La droga è costituita dalle foglie che contengono caffeina, teofillina, un olio essenziale, sostanze resinose e tanniche. La caffeina è il principio attivo più importante ed è presente,
secondo le qualità, dall’I,35 al 5,20%, anche se normalmente vengono riportati valori medi compresi dall’I al 3%. Il té dunque è più ricco di caffeina del caffè. L’azione nervina del caffè e del té è pressoché identica, ma il primo produce un’eccitazione maggiore, il secondo più blanda ma più duratura.

Accanto al caffè e al té vanno pure ricordate le noci di cola, la cui droga è costituita dalla parte embrionale dei semi, privi di tegumenti, di Cola nitida, una sterculiacea dell’Africa occidentale. Per il loro contenuto in caffeina vengono utilizzate come stimolanti, ma la loro richiesta è scarsa.

Piantaggini Ononide Asperula

Delle piantaggini v’è chi prende in considerazione solo la major, altri la lanceolata, altri anche la media. Si ritiene comunque comunemente che tutte e tre godano di proprietà analoghe.
Sono piante erbacee perenni assai diffuse, specialmente le prime due, nei luoghi erbosi e incolti e, la major, anche nei luoghi calpestati come selciati e strade campestri. Appartengono alla famiglia delle Plantaginacee.

Note ai più grandi medici dell’antichità da Dioscoride, a Plinio, a Galeno, furono poi usate anche da quelli della famosa scuola medica salernitana che le impiegarono anche, come astringente, nelle metrorragie, e per simulare la verginità in fanciulle che l’avevano perduta.

Attualmente vengono usate soprattutto come diuretici ma anche come topici e astringenti: entrano così in infusi e in impiastri per la cura di ulcere, pustole, morsicature di insetti e anche come collutori per congiuntiviti o per gargarismi. È opinione qualificata che le piantaggini dovrebbero trovare maggiori possibilità di impiego di quanto oggi non avvenga, naturalmente dopo che opportune ricerche scientifiche abbiano approfondito le loro proprietà.

L’ononide,

o bonaga (Ononis spinosa) è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Leguminose. È ampiamente diffusa in Europa, Asia occidentale e Africa settentrionale e nel nostro paese è abbastanza comune nei pascoli e negli incolti collinari.

La droga è data dalle radici, lunghe fino a mezzo metro e del diametro anche di un centimetro. Contiene alcune saponine (alfa-onocerina, ononina, onospina), tannino, acido citrico, oli essenziali. Già nota ai medici classici dell’antichità come Dioscoride e Plinio che la usavano appunto come diuretico e nella cura dei calcoli renali, venne usata più tardi per gli stessi scopi anche dal famoso Pier Andrea Mattioli. Si usa l’infuso, associandolo spesso al finocchio, ma v’è chi ritiene che così facendo la massima parte dei principi attivi vada perduta perché evaporerebbero con l’acqua. Se ne preparano perciò l’estratto fluido e uno sciroppo.

L’asperula,

o stellina odorosa (Asperula odorata) è una piccola pianta erbacea perenne a diffusione europea e asiatico-occidentale appartenente alla famiglia delle Rubiacee. Nel nostro paese è reperibile nei boschi freschi delle Alpi e degli Appennini, specialmente nel sottobosco delle faggete dove può costituire veri e propri ampi tappeti.

I fiori sono bianchi e stellati; il frutto assai caratteristico: globoso, doppio e irto di peli uncinati. Si usa l’erba intera raccolta all’epoca della fioritura o, secondo altri, immediatamente prima. Nel fresco è inodora; secca emana il caratteristico odore di fieno delle droghe ricche di cumarina. Se ne usa l’infuso, fatto in macerazione al 5% nell’acqua o nel vino (così si ottengono, in Austria e in Germania, il Maitrank – bevanda di maggio – e il Waldmeisterbowlè).

Esplica azione diuretica, antisettica renale e inoltre, come le altre droghe cumariniche, anche sedativi antispasmodica, leggermente ipnotica. È pertanto indicata anche nella cura dell’insonnia e dell’eretismo specialmente in persone delicate come vecchi, bambini e convalescenti.

Pungitopo Asparago Parietaria

Non c’è bosco o boschetto asciutto dalla pianura alla media montagna che non annoveri tra le sue specie il pungitopo o rusco, Ruscus aculeatus delle Liliacee, piccolo suffrutice perenne, sempreverde, dotato di un rizoma grigiastro strisciante.

La pianta, coltivata anche come ornamentale per il bel “fogliame” e per le decorative bacche di color rosso brillante, ben si adatta su terreni a composizione prevalentemente calcarea e la sua diffusione interessa l’Europa centro-meridionale, l’Asia occidentale e l’Africa boreale. Dal punto di vista morfologico questo piccolo arbusto presenta una peculiarità comune a non molte altre piante, quella cioè di possedere cladodi ben sviluppati.

Con tale termine vengono indicati i rami terminali di forma ovale ed appuntiti e che nell’aspetto assomigliano a normali foglie. Di queste, ridotte a minute squame poste alla base dei cladodi stessi, svolgono praticamente le medesime funzioni, tra cui quella fotosintetica. Non è però di tali particolarità che qui vogliamo parlare, ma delle sue virtù officinali.

È noto fin dall’antichità che Ruscus aculeatus ha proprietà diuretiche, tanto che Dioscoride proponeva “foglie” e bacche macerate nel vino e un decotto ottenuto con il rizoma. Oggi è proprio tale parte che generalmente viene usata dopo una buona essiccazione. Emana allora un leggero, ma caratteristico odore di trementina ed il sapore, inizialmente dolciastro, diviene ben presto amarognolo.

Le proprietà diuretiche ed in secondo luogo aperitive sono dovute al contenuto in sali di calcio e di potassio, nonché ad una resina e ad un olio essenziale. Le particolari doti stimolanti l’appetito presenti nel rizoma del pungitopo vengono ancor più messe in evidenza nel caratteristico aperitivo delle “cinque radici” ottenuto da asparago, finocchio, sedano, prezzemolo e pungitopo in parti uguali.

Non è un mistero che dopo aver consumato degli asparagi si nota un aumento della diuresi e che l’urina emana un tipico odore piuttosto disgustoso. In un certo senso è la prova lampante che Asparagus officinali!, liliacea a diffusione fondamentalmente eurasiatica, possiede anche nei commestibili turioni proprietà diuretiche. Sono però le radici ed il rizoma di questa pianta che trovano impiego farmacologico avendo dato buoni risultati non solo come diuretici, ma anche nella cura dell’idropisia, nel reumatismo, nella gotta ed anche in certe affezioni cardiache.

L’efficacia medicinale è dovuta alla presenza, tra l’altro, di mucillagine, di resina e sostanze amare, nonché di asparagina, delle vitamine A e B le cui azioni rispettivamente antixeroftalmica ed antineuritica sono ben note.

Ricca di nitrato di potassio e quindi con proprietà diuretiche è la parietaria (Parietaria officinali^), urticacea di scarsa importanza botanica, ma conosciuta ai più per la sua enorme diffusione su detriti, macerie, vecchi muri, dove affonda le radici sgretolandone l’intonaco.

Tutta la pianta può ritenersi sede di principi attivi, tuttavia di gran lunga più frequente è l’uso delle foglie, dalle quali si può ricavare un buon infuso diuretico, un estratto fluido ed un succo che la medicina popolare propone nella nefrite, nella cistite e nell’idropisia. Non va dimenticato infine che la parietaria, contenendo una sostanza mucillaginosa, agisce da emolliente.

Borragine Alchechengio

La borragine non può certo considerarsi un’eletta tra le piante, sia spontanee che coltivate, eppure è riuscita in qualche modo a far parlare di sé non solo per quel che riguarda il luogo d’origine, ma anche per una certa disputa sorta sul modo corretto di scrivere il corrispondente nome scientifico latino.

Dapprima si pensava che la borragine fosse nativa dell’Asia Minore e della Siria, uno dei centri più importanti dal quale numerosissime piante si sono diffuse; in seguito invece gli studiosi sono giunti alla conclusione che questa specie probabilmente fosse originaria del bacino occidentale del Mediterraneo, precisamente della Spagna e dell’Africa settentrionale.

Per quel che riguarda la grafia latina, anche se in contrasto con quanto ha accettato Linneo, la pianta dovrebbe essere indicata come Borago officinali! e non Borrago, come più correntemente ci è dato di scrivere. La borragine è piuttosto comune in tutti i terreni coltivati, dagli orti ai giardini, poco frequente allo stato selvatico, dal mare alla zona submontana della nostra penisola. Le sue proprietà medicinali sono ben note fin dal medioevo.

Fiori e foglie sono rinfrescanti, sudoriferi, emollienti, ma soprattutto ottimi diuretici per il contenuto di nitrato di potassio, il nitro, che si può osservare sotto forma di piccoli cristalli dopo evaporazione del succo concentrato. Oltre al nitrato di potassio sono presenti sostanze gommose (almeno il 30% della pianta seccata è costituito da mucillagine) e ancora resine, malato di calcio, fosfati e solfati, magnesio, sodio ed appena qualche traccia di olio essenziale.

Foglie e sommità fiorite nella medicina popolare sono alla base della preparazione di un infuso efficace nelle affezioni bronchiali, nella cura della tosse, e soprattutto nello stimolare le funzioni renali dal momento che viene considerevolmente aumentata la diuresi. La borragine assieme ad altre piante erbacee, quali ad esempio la cicoria, il crescione, il tarassaco, l’ononide e la fumaria, viene pure usata per preparare un decotto che è ritenuto un buon rinfrescante primaverile. Inoltre le foglie più giovani e le sommità fiorite della pianta possono essere consumate in insalata oppure essere cotte e servite come gli spinaci o entrare come componenti di sapente minestre di verdura nel cuore della primavera.

L’alchechengio

(Physalis alkekengì) è una bella solanacea di tipo erbaceo che cresce spontanea nelle regioni dell’Europa centrale e meridionale e dell’Asia ed è abbastanza ftequente lungo le siepi e nei luoghi boschivi fino alla zona montana dell’Italia settentrionale e centrale, mentre è scarsa nel meridione ed assente o quasi nelle isole maggiori. Morfologicamente la nota più caratteristica è data dal frutto di color rosso-aranciato ed avvolto dal calice accrescente in modo che complessivamente viene a formarsi una sorta di palloncino veneziano. E sono proprio i frutti, dal sapore dolce-acidulo, contenenti zucchero, acido citrico, tannino e vitamina C, che, consumati allo stato fresco ed al naturale, sono in possesso di notevoli proprietà farmacologiche.

Di una certa efficacia è la loro azione lassativa, rinfrescante, diuretica, antiurica, nonché antiossalurica ed antigottosa. I frutti ancora, sempre liberati dal calice che li avvolge, vengono pure impiegati per preparare marmellate e confetture di sapore gradevolmente acidulo.

Gramigne Erba ruggine Sambuchi

In Italia si da l’appellativo di gramigna a Cynodon dactylon, ma al di fuori dei nostri confini geografici con lo stesso termine volgare, che deriva dal latino gramen, cioè stelo d’erba, si fa riferimento a Agropyrum repens, il cui attributo specifico indica chiaramente l’andamento strisciante del rizoma. Pur non possedendo principi attivi del tutto analoghi. queste due piante si possono tuttavia accostare perché le loro azioni farmacologiche interessano gli stessi apparati, è cioè quello genito-urinario e secondariamente quello respiratorio.

La droga sia in Agropyrum sia in Cynodon è costituita dai rizomi, che vanno raccolti verso la metà della primavera e dell’autunno: con essi si fanno decotti 0 tisane la cui preparazione, invero assai semplice, ne ha reso l’uso piuttosto frequente a livello familiare.

Nel rizoma della gramignavera e propria, quella italiana, diciamo così, le proprietà terapeutiche sono dovute fondamentalmente alla cinodina, assai affine alla asparagina. Più ricco di principi attivi si è dimostrato il rizoma di Agropyrum: ricorderemo la triticina, una sostanza gommosa che ha la capacità di trasformarsi in zucchero, sali di potassio, mannite ed inosite.

I preparati a base di gramigna vengono impiegati per la loro azione depurativa e diuretica, nonché sudorifera e emolliente, e per curare alcuni casi di infiammazione dell’apparato uro-genitale.

Ceterach offitinarum, nota con l’appellativo di cedracca e ancor più con quello di erba ruggine, è una piccola felce, una polipodiacea per l’esattezza, a diffusione eurasiatica e molto comune nella nostra penisola nelle fessure dei muri e sulle rocce dal livello del mare alla zona submontana.

Sono fronde e non foglie quell’insieme di segmenti pennatopartiti, brevemente picciolati, che formano una specie di rosetta e che sono caratterizzati dal possedere lobi di color verde superiormente e di color ruggine nella pagina inferiore. In farmacologia interessa praticamente tutta la pianta ad eccezione del rizoma.

I principi attivi in essa contenuti sono dati da mucillagine, tannino, e da una sostanza amara che fornisce a infusi e decotti un pessimo gusto tanto da rendere necessaria la loro aromatizzazione con qualche goccia di essenza di anice o menta.

L’erba ruggine è usata come blando bechico e espettorante, ma forse ancor più come diuretico: come tale si è dimostrata particolarmente indicata in quei pazienti afflitti da disuria provocata dalla presenza di acido ossalico o di ossalati, e per prevenire coliche causate da calcoli renali.

I tre sambuchi della nostra flora, Sambucm ebulus, Sambucus nigra e Sambucus racemosa o rosso, possono venire accumunati contenendo sostanze con azione analoga, seppur presenti in percentuale diversa.
Le proprietà medicinali del sambuco, pianta della famiglia delle Caprifogliacee, erano già conosciute al tempo di Teofrasto e Dioscoride, anche se fiori, foglie, frutti e corteccia vennero successivamente indicati per curare un buon numero di disturbi, talora anche assai diversi oa loro. Attualmente al sambuco vengono attribuite doti sudorifere, diuretiche, e in secondo luogo lassative, antireumatiche e antinevralgiche.

Uva ursina Verga d’oro Mirtillo rosso Ginepro

La droga di Arctostaphylos uva-ursi, l’uva ursina, piccolo cespuglio appartenente alla famiglia delle Ericacee e ad ampia diffusione nelle zone montane dell’emisfero boreale, si ricava dalle foglie.

Notizie sicure sulle proprietà farmacologiche dell’uva ursina si cominciano ad avere verso la metà del XVIII secolo, ma l’uso terapeutico delle foglie risale a poco più di un secolo fa. Esse sono astringenti intestinali per la presenza di sostanze tanniche nella misura del 30% circa, e diuretiche in quanto contengono arbutina e metil-arbutina che in condizioni fisiche normali vengono regolarmente eliminate impartendo all’urina una colorazione verdognola.

Anche la comunissima verga d’oro (Solivago virgo-aurea), composita delle zone boschive e dei pascoli delle colline e della media montagna, si impiega come diuretico e astringente. La parte usata è generalmente costituita dalle sommità fiorite; tutta la pianta, tuttavia, contiene tannino, una saponina e una piccola percentuale di olio essenziale.

Principi analoghi a quelli dell’uva ursina si trovano nel mirtillo rosso (Vaccinium vitis-idaea), ericacea diffusa nelle zone montane dell’emisfero boreale. Le foglie contengono una buona dose di acido tannico, che le rende astringenti, ed inoltre arbutina, vaccinina e idrochinone libero che conferiscono loro proprietà diuretiche, antisettiche e antigottose. Data l’affinità chimica esistente tra il mirtillo rosso e l’uva ursina può essere preparato un decotto con le medesime dosi, vale a dire 30-40 g di foglie in un litro d’acqua da consumarsi nella misura di 2-3 tazze al giorno.

L’uso medico dei frutti del ginepro (Juniperus communio) detti galbuli, ma che generalmente vengono indicati come “bacche”, è molto antico, risalendo a greci, romani e arabi. Catone il Vecchio nel De re rustica si sofferma a parlare delle bacche del ginepro come uno degli elementi fondamentali per una specie di vino con proprietà diuretiche. Anche presso gli egizi erano noti i principi attivi di questo arbusto che oltre ad essere apprezzato per le doti diuretiche, era ritenuto un efficace diaforetico.

Oggi le cose non sono molto cambiate e questa cupressacea trova impiego come nel passato; tuttavia, e qui sta l’aspetto nuovo, abbastanza recentemente si sono poste in evidenza nel ginepro anche un’azione balsamica, antireumatica ed in modo particolare antisettica delle vie urinarie. Le parti usate sono costituite dalle bacche che vanno raccolte in autunno ben inoltrato allorquando assumono una. colorazione nera-azzurrognola e hanno press’a poco la grandezza di un pisello.

I principi attivi sono dovuti in primo luogo a un olio essenziale presente in una percentuale variabile dallo 0,5 all’I,6%; a questo si aggiungono cere, inosite, resine, nonché una sostanza amara chiamata juniperina.
Con le bacche di ginepro abbastanza di frequente, soprattutto nelle zone di montagna, si preparano infusi o tisane a scopo diuretico.

Mais Licopodio Mercorella

Del mais (Zea mays), ben più noto come cereale di enorme impiego per l’alimentazione umana e, soprattutto, zootecnica, originario dell’America centrale ed oggi ampiamente coltivato in tutte le zone temperato-calde del globo (e nel nostro paese specialmente nella Valle Padana), si usano, per le loro proprietà diuretiche e sedative, i cosiddetti “capelli” che non sono altro che gli stimmi che fuoriescono dalla grossa infiorescenza rivestita di grossolane brattee.

Si dovrebbero raccogliere alla fioritura, quando sono, nelle varie cultivars, di colore biondastro o rossiccio, ma per evidenti motivi di praticità si finisce per utilizzare i capelli completamente secchi che si possono ricuperare al momento della raccolta del cereale. Contengono resine, saponine, tannino, acidi grassi e numerose altre sostanze. L’azione diuretica dei capelli, o barbe di mais, è nota fin dai primi decenni del 1700.

Sotto forma di decotto o estratto fluido vengono impiegati come diuretici nei casi di edema da insufficienza cardiaca e di idropisia. Sono efficaci anche come decongestionanti in casi di cistiti e cistopieliti. Sono stati usati con successo anche nella cura di gotta, uricemia e artritismo, come disintossicanti e acceleratori del ricambio.

Il licopodio (Lycopodium clavatum) è una pteridofita, e in particolare appartiene alla classe delle Licopodine e alla famiglia omonima delle Licopodiacee. È assai diffuso nei boschi e nei pascoli montani delle regioni fredde e temperate; nel nostro paese è presente sulle Alpi e sull’Appennino settentrionale e centrale, ma solo raramente abbondante. Si ricorda, ormai come nota di curiosità, l’uso che si faceva un tempo della “polvere” di licopodio costituita dalle spore. La polvere serviva dunque per involucrare le pillole, come polvere igienica in sostituzione del talco, per isolare e proteggere piaghe e ferite.

Attualmente, per la difficoltà di averlo sterile, non si usa più per questi scopi. Per l’elevato contenuto delle spore in oli essenziali – le spore bruciano infatti con produzione di una fiamma vivida e scoppiettante – il licopodio si usava anche nella preparazione dei fuochi artificiali. Le parti verdi – ed anche quelle di Lycopodium, o Huperzia, selago – contengono invece alcuni alcaloidi ad azione diuretica.

La mercorella {Mercuriali annua) è una pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle Euforbiacee. Ha un’ampia distribuzione: Europa centrale e meridionale, Asia mediterranea, Nordafrica. Nel nostro paese è comunissima in pianura ed in collina specialmente nei frutteti, nelle colture sarchiate, negli incolti erbosi. È una pianta dioica, cioè con individui maschio ed altri femmina. Vegeta e fiorisce all’autunno e riprende poi in primavera.

Della mercorella si usa l’erba intera, che contiene un alcaloide volatile, la mercurialina, un principio amaro e trimetilamina. Secondo alcuni autori bisogna usare preferibilmente l’erba fresca perché con l’essiccamento essa perde gran parte della sua efficacia. L’erba è dotata di proprietà diuretiche e lassative e nella medicina popolare è usata per interrompere la secrezione lattea.

Elicriso Equiseto Olmaria

Pianta molto complessa dal punto di vista farmacologico è l’elicriso (Helicbrysum italìcum), composita la cui area di diffusione è limitata all’Europa meridionale. Facile è individuare l’etimologia dal nome generico: due parole greche, ma chiare, helios cioè sole, e krusos, oro, con evidente allusione ai capolini della pianta che sono di un bel colore giallo brillante. Non può certo dirsi che l’elicriso sia pianta medicinale di recente scoperta, essendo già conosciuta e apprezzata all’epoca greco-romana e ancor più nel medioevo.

La novità consiste nel fatto che a partire dagli ultimi decenni non solo sono state confermate le azioni farmacologiche di un tempo, ma altre ne sono state scoperte, per merito inizialmente di un medico condotto toscano, il Santini. La droga è costituita dalle parti erbacee della pianta fiorita che hanno odore caratteristico molto penetrante e aromatico. Essa contiene un olio essenziale, acido caffeico, acido ursolico, resine, mucillagini e sostanze coloranti che nell’insieme prendono il nome di elicrisina.

L’estratto fluido, lo sciroppo, l’aerosol, il decotto e l’infuso di elicriso trovano impiego, secondo i casi, nelle malattie dell’apparato respiratorio, nella pertosse e nelle rinopatie, nelle malattie reumatiche e allergiche (asma, orticaria, allergie alimentari), nelle malattie del fegato e delle vie biliari, nelle flebiti, nelle cefalee e perfino nelle ustioni e per curare i geloni.

Con il termine di coda di cavallo vengono contemporaneamente indicate due specie di equiseto, e cioè Equisetum arvense e Equmtum maximum, la cui diffusione interessa i luoghi freschi e temperati di gran parte dell’emisfero boreale. La droga è data dai cauli sterili raccolti durante l’estate; contiene una grande quantità di acido silicico, acido ossalico, acido malico, acido equisetico, equisetina, tannino, resina e materie grasse.

I principi attivi esercitano una notevole azione diuretica, emostatica, rimineralizzante e astringente. Decotti, estratti fluidi e altri preparati trovano impiego nella cura dell’idropisia e delle malattie vescicali e renali, nelle emorragie nasali, bronchiali, emorroidali e uterine.

L’olmaria

(Spiraea ulmarìa), o con termine più aulico regina dei prati, è una rosacea a diffusione eurasiatica. Dal punto di vista etimologico il nome scientifico è un insieme di greco e di latino: il nome del genere probabilmente deriva dalla forma attoreigliata dei frutti, mentre quello specifico si ricollega all’olmo, le cui foglie vagamente assomigliano a quelle dell’olmaria.

In farmacologia di questa pianta vengono usate di solito le sommità fiorite, che devono essere raccolte all’inizio della fioritura, cioè da giugno ad agosto; tuttavia in commercio si possono trovare ancor più facilmente le foglie e talora anche l’intera pianta, comunque sempre fiorita. I principi attivi sono dati da un glucoside, la gaulterina – che in presenza di un enzima specifico. la gaulterasi, si scinde in glucosio e salicilato di metile – da un olio essenziale, di composizione chimica complessa, e da un altro glucoside, cioè la spiriina. Sotto forma di infuso l’olmaria viene usata per curare reumatismi articolari, gotta e nefriti, e per eliminare edemi, possedendo proprietà antireumatiche, diuretiche, antiidropiche, toniche e astringenti.

Fumaria Capelvenere Dulcamara

Foglie, rametti e soprattutto sommità fiorite della fumaria (Fumaria officinali!), una papaveracea eurasiatica, contengono un alcaloide, la fumarina, acido fumarico, un principio amaro e sostanze resinose. Tali costituenti le conferiscono proprietà depurative, toniche, diaforetiche, che tuttavia non risultano costanti, ma variano col tempo e con l’intensità dell’impiego, mentre la pressione sanguigna subisce una netta diminuzione dopo un primo e non duraturo innalzamento. Per queste ragioni alcune farmacopee ufficiali hanno escluso la fumana dal novero delle piante officinali. Il capelvenere (Adiantum capillus-veneris) è un’elegante felce della famiglia delle Polipodiacee, piuttosto frequente in tutte le regioni temperate e calde del globo.

Era già conosciuta presso i romani, e Apuleio e Plinio la menzionano nei loro scritti: il primo paragonando i neri piccioli fogliari, o meglio delle fronde, ai capelli di Venere, il secondo intravedendo nella pianta doti straordinarie per rallentare il processo della caduta dei capelli. Tutta la pianta, che va raccolta all’inizio dell’estate, ha proprietà terapeutiche: i suoi componenti sono acido gallico, tracce di tannino, olio essenziale, mucillagini e zucchero.

L’impiego del capelvenere, attualmente, è ristretto all’uso familiare come blando depurativo e come rimedio per la tosse e il raffreddore, date le sue virtù emollienti e espettoranti. La terapia è basata sulla somministrazione, secondo i casi, di un infuso, uno sciroppo o di un estratto fluido.

Fiori violacei con antere giallo carico, frutti bacciformi di un bel colore rosso: ecco come si presenta l’elegante Solarium dulcamara, la dulcamara, solanacea spontanea della flora italiana, comune nei luoghi freschi e umidi, lungo le siepi e nei boschetti dal mare alla regione montana. Meno importante di altre solanacee, sia alimentari – patata, pomodoro, melanzana, peperone – sia medicinali – belladonna, mandragora – la dulcamara era tenuta in gran conto nei secoli scorsi in diverse farmacopee.

Oggi il suo impiego a livello familiare si è molto ridotto, mentre industrialmente alcune case farmaceutiche ne usano i principi attivi in determinati preparati. La parte usata della dulcamara è rappresentata dai giovani rametti, chiamati stipiti. Il principio attivo è dato dalla solanina, dalla solaceina che da alla droga un sapore amaro prima e in seguito dolce, e dalla dulcarina.

Dal punto di vista farmacologico la dulcamara possiedeproprietà depurative per il sangue se impiegata con malva, gramigna e bardana; ha pure modeste azioni diuretiche, lassative, diaforetiche, cioè che aumentano la secrezione del sudore, antispasmodiche nei dolori reumatici, stimolanti nei casi di mestruazioni irregolari e espettoranti nelle affezioni bronchiali. La dulcamara esercita inoltre un’azione leggermente anafrodisiaca e ipnotica.

Tutte queste doti, tuttavia, sono controbilanciate dal pericolo che si annida nelle rosse bacche della dulcamara, che sono velenose, provocando, se ingerite, morte per paralisi respiratoria in soggetti deboli o in tenera età. Anche forti dosi della droga producono sintomi di avvelenamento, quali vomito, nausea, diarrea, vertigini e sonnolenza. È opportuno quindi considerare Solanum dulcamara pianta da usare con cautela sotto controllo medico.

Borsa del pastore Crespino

La borsa del pastore, o capsella (Capsella bursa-pastora) è una pianta erbacea annuale appartenente alla famiglia delle Crocifere, di taglia assai variabile secondo le condizioni in cui cresce, assai polimorfa – se ne distinguono almeno quattro varietà – e pressoché cosmopolita. È facilmente reperibile negli incolti erbosi, nei rudereti, ai bordi delle vie, negli orti, nelle colture sarchiate.

È praticamente inconfondibile per la caratteristica forma triangolare delle sue siliquette. La droga è data dall’erba intera fiorita, privata della radice. Contiene colina, acetilcolina, composti solforati (mercaptani). Per altri composti – tra i quali l’isosolfocianato di allile – i dati sono discordanti.

La capsella esplica azioni assai variabili sull’utero: viene usata nella terapia di metrorragie e menorragie, anche se non è noto a quale delle numerose sostanze che contiene si debba attribuire l’azione emostatica. A titolo di curiosità ricordiamo inoltre l’uso delle giovani piante di capsella – le “rosette” fogliari reperibili durantel’inverno e all’inizio della primavera – per la preparazione di sapide minestre paesane primaverili.

Il crespino

(Berberis vulgaris), appartenente alla famiglia delle Berberidacee, è un cespuglio di media taglia diffuso in boschi, macchie e siepi d’Europa e d’Asia. Nel nostro paese è presente in boschi, macchie e siepi montane e talora anche in pianura come nel bosco della Mesola, in provincia di Ferrara, e nelle pinete di Ravenna.

La sua maggior fama gli deriva forse, più che dalle sue qualità medicinali, dall’essere T’ospite intermedio” della ruggine del grano, una tra le malattie crittogamiche delle piante coltivate più temuta fin dall’antichità. La droga, data dalla scorza della radice e dei rami, contiene svariati alcaloidi – berberina, berberribina, palmatina, ossicantina – e tannino. Il crespino, associato ad altre droghe ad azione analoga come cipresso, amamelide, idraste, viene usato come emostatico nella cura di metrorragie e come astringente.

Possiede inoltre svariate altre proprietà, come deprimente respiratorio e stimolante cardiaco, vasodilatatore e ipotensivo, blando anestetico. È dotato anche di proprietà antiprotozoarie (leishmaniosi, malaria, tripanosomiasi) e batteriostatica sia nei confronti di parassiti dell’uomo (stafilococchi vari, carbonchio, bacillo della tubercolosi) che delle piante. I frutti, di un bel rosso corallo, ricchi di zuccheri e di acidi organici – malico, citrico, tartarico – servono per preparare sciroppi e bibire vitaminiche e rinfrescanti.

Camomilla Senecione Tanaceto

Pur perdendosi nella notte dei tempi l’uso della camomilla, Matricarìa chamomilla, delle Composite, tanto da essere una delle piante medicinali di più largo consumo nelle varie farmacopee, non sono ancora del tutto chiare le sue molteplici azioni farmacologiche e i numerosi principi attivi che le determinano. Come ben si sa con la camomilla, anzi con i capolini o con i fiori staccati che vanno raccolti quando non sono troppo schiusi e con gambo corto, si possono preparare infusi e tisane, nonché vari tipi di estratti.

Le loro azioni terapeutiche sarebbero dovute fondamentalmente alla presenza di un olio essenziale, l’azulene, di un principio amaro, l’acido antemico, e di un glucoside. Il principio attivo di maggior interesse farmacologico sarebbe comunque l’azulene, la cui azione sedativa è particolarmente efficace nei casi di ipereccitabilità nervosa, quella antispasmodica nei disturbi dell’apparato gastro-intestinale e annessi (gastrite, enterite, dismenorrea), mentre quella emmenagoga da buoni risultati nei casi di amenorrea dipendente da turbe nervose.

Pianta senza eccessive pretese dal punto di vista estetico, qualcuna in più ne accampa invece in fitoterapia il senecione (Senedo vulgaris), composita la cui presenza nei luoghi incolti, lungo le strade e i sentieri ben difficilmente può passare inosservata anche ai meno esperti di botanica.

L’impiego terapeutico di questa specie, alla quale un tempo erano attribuite azioni emollienti, rinfrescanti, antiemorragiche, nonché antispastiche, va oggi molto limitato e prescritto con cautela. La parte sotterranea della pianta più ancora di quella aerea contiene infatti la senecionina e la senecina.

La prima, che è un alcaloide, è altamente tossica tanto da poter procurare in dosi sperimentali gravi disturbi all’intestino, allo stomaco, al fegato, mentre la seconda, che si può considerare un principio resinoso, avrebbe un’azione digitalica. Fin dall’inizio del secolo scorso però, come del resto anche attualmente, del senecione venivano messe in evidenza le proprietà emmenagoghe tanto da esser consigliato per curare casi di amenorrea e dismenorrea.

Secondo il Negri « il principio attivo ad azione emmenagoga ed emostatica sarebbe un liquido viscoso di odore caratteristico e che da le reazioni di una combinazione non satura di carbonio e di un gruppo aromatico ».
La funzione mestruale molto spesso è accompagnata da disturbi collaterali o da fenomeni dolorosi. L’estratto fluido di senecione, oltre a regolarizzare nei casi difficili il flusso sanguigno, rende più sopportabili quelle manifestazioni tipiche appunto della crisi mensile.

La presenza di tanacetone, ossia di un olio etereo, rende assai tossico e pertanto quasi bandito dalla nostra farmacopea il tanaceto (Tanacetum vulgare), appartenente come i precedenti alle Composite.
Le parti usate di questa pianta, che rappresentano la droga, sono costituite dalie sommità fiorite e dalle foglie. Un tempo in terapia il tanaceto era impiegato, oltre che per le sue proprietà balsamiche, espettoranti, febbrifughe e antielmintiche, per quelle eccitanti l’utero e emmenagoghe nei casi di mestruazioni irregolari e dolorose.

Pallone di maggio Camepizio Tasso

II pallone di maggio (Viburnum opulus) appartiene alla famiglia delle Caprifogliacee. È un grosso cespuglio e nel nostro paese cresce nei boschi umidi, nelle siepi, nei luoghi paludosi della Pianura Padana e zone adiacenti.

Coltivata a scopo ornamentale è la forma a fiore doppio, però sterile.Se ne usa la corteccia che contiene un principio amaro, la viburnina, tannino. acidi organici. Esplica, analogamente al congenere Viburnum prunifolium del Nordamerica, un’azione spasmolitica e sedativa a favore dell’utero.
Viene pertanto usato nella pratica ginecologica come emmenagogo, nella terapia dei disturbi della menopausa e come antiabortivo, Viburnum lantana viene invece usato come collutorio.

Il Camepizio (Ajuga chamaepitys) è una piccola pianta erbaceadiffusa in Europa, Asia e Africa settentrionale. Nel nostro paese è abbastanza comune specialmente nei seminativi e fiorisce quasi tutto l’anno. Appartiene alla famiglia delle Labiate. È stato usato in passato come diuretico e antiartritico e viene usato, secondo il Lodi, nella montagna bolognese come emmenagogo. Sono vecchie tradizioni che meriterebbero una conferma o comunque una risposta dalla scienza ufficiale.

Il tasso (Taxus baccata), noto anche sotto il lugubre nome di albero della morte, una conifera – un po’ sui generis, però, visto che non porta coni – appartenente alla famiglia delle Taxacee, è senz’altro conosciuto da tutti perché ampiamente coltivato nei parchi e nei giardini, anche in quelli all’italiana perché docile alle potature.

Specie dell’intero emisfero boreale, allo stato spontaneo è presente qua e là nel nostro paese sulle Alpi, sugli Appennini, nel Gargano (nella famosa Foresta Umbra), nelle isole, particolarmente in Sardegna. È un albero sempreverde di taglia non eccessiva, a fogliame scuro e a corteccia di colore tipicamente ramato.

Foglie e giovani rami contengono gli alcaloidi tassina e milossina e il glucoside tassicatina. Nella medicina popolare furono usati soprattutto come emmenagoghi e come abortivi. Per la loro collaterale azione cardiaca entrarono anche in infusi come succedanei della digitale. Il rosso arillo che avvolge i semi e matura sul finire dell’estate è dolcissimo e assai appetito dagli uccelli, che provvedono così alla disseminazione della specie tutt’intorno ai parchi ove è coltivata.

Può essere impunemente mangiato con l’avvertenza però di non inghiottire il seme, velenoso anche per l’uomo. Sulla velenosità del tasso nei confronti degli animali domestici esistono numerose testimonianze: avvelenamenti di cavalli, muli, pecore, bovini. Certo però è che lo scrivente ha notato in talune zone montuose della Lucania (Monte Alpi) alberetti di tasso “potati” dalle capre, e se una azione velenosa ci fosse stata, sarebbe stata senz’altro notata dai pastori. Evidentemente questa velenosità, almeno a piccole dosi, non è così assoluta come si crede.

Nei casi di avvelenamento riscontrati in donne sottopostesi a pratiche abortive o in ragazzi che si erano golosamente e imprudentemente cibati di arilli ingoiando anche i semi sono stati osservati vomito, coliche, vertigini e perdita dei sensi con indebolimento del polso e dell’attività respiratoria fino alla paralisi. Per la cura si usano purganti, lavande gastriche e si somministrano analettici.

Violacciocca gialla Sabina Segale cornuta

Cheiranthus cheiri, la cosiddetta violacciocca gialla, è un piccolo suffrutice appartenente alla famiglia delle Crocifere. Di origine mediterraneo-orientale, da noi è spesso coltivata a scopo ornamentale (fiorisce proprio all’inizio della primavera) e si è inselvatichita su rupi o vecchi muri. Le parti verdi contengono un glucoside poco noto detto cheirantina; i semi un altro glucoside detto glucocheirolina. Per la ben nota teoria della segnatura la pianta fu usata in passato nella cura dell’itterizia a causa del colore dei suoi fiori. I semi hanno proprietà abortive.

La sabina (Juniperus sabina) è un piccolo arbusto, appartenente alla famiglia delle Cupressacee, a portamento il più delle volte strisciante, raramente eretto e ancor più raramente della taglia di un piccolo alberetto. È specie dell’Europa centro-meridionale e nel nostro paese è spontanea, ma poco frequente, nei boschi radi e soleggiati del Trentino e di altre parti del Veneto e più raramente anche dell’Appennino ligure, centrale e meridionale. Se ne usano i giovani rami rivestiti di foglie.

Contengono un olio essenziale ricco soprattutto dell’alcool terpenico sabinolo, diversi terpeni, altri alcoli e numerose altre sostanze. La sabina era già nota – sia per le proprietà medicinali che per la velenosità – nel mondo greco e romano. Dioscoride e Plinio già le riconoscevano proprietà abortive ed emmenagoghe e nel medioevo ebbe addirittura l’onore di figurare nel “capitolare” con cui Carlo Magno ordinava ai suoi sudditi di coltivare determinate piante medicinali.

Anche ai nostri giorni pare sia ancora usata nella medicina popolare di certi paesi nord-europei, ma la sua pericolosità è tale da sconsigliarne l’uso nella medicina umana. Ha invece interessanti applicazioni in medicina veterinaria.

La segale cornuta è costituita da speciali corpiccioli fusiformi detti sclerozi e prodotti da un fungo parassita, Claviceps purpurea, sulla segale e, talora, anche su altre graminacee. La droga è data appunto dagli sclerozi che costituiscono la forma di resistenza nel complesso ciclo biologico del fungo. Contiene numerosissimi alcaloidi raggruppabili nei tre gruppi dell’ergotamina, ergotossina ed ergometrina, e, inoltre, acido lisergico, grassi, pigmenti e molte altre sostanze. Pare che il suo uso sia stato sconosciuto ai popoli antichi eccetto che ai cinesi, anche se talune citazioni – peraltro non sufficientemente indicative – della Bibbia e di altri libri sacri fanno pensare che già si avesse qualche nozione di essa.

Ben noti invece da tempo sono gli effetti dell’avvelenamento per ingestione di pane confezionato con farine inquinate dagli sclerozi, avvelenamento che si manifesta in due forme e cioè acuta (o convulsiva) e cronica (o gangrenosa). Da un punto di vista farmacologico dobbiamo rilevare che l’azione della segale cornuta sulla muscolatura liscia può provocare – oltre alla mancata irrorazione degli arti inferiori -un’azione contratturante a carico dell’utero con conseguenze abortive; ha però anche utili possibilità di applicazione per frenare le pericolose emorragie post-partum in uteri atonici.

Cipolla Ortiche Mirtillo nero

La cipolla (Allium cepa) è una pianta erbacea bulbosa originaria della Persia e del Belucistan e largamente coltivata in tutto il mondo in numerose cultivars con bulbi di taglia, forma e colore assai diversi.

Appartiene alla famiglia delle Liliacee. I bulbi della cipolla che costituiscono la droga, esplicano svariate funzioni. Sono dotati di proprietà coleretiche (dovute alla presenza di sostanze cinarosimili come gli acidi caffeico e clorogenico), diuretiche e decloruranti, batteriostatiche, vasodilatatrici e ipoglicemizzanti. Non è da trascurare inoltre la benefica azione regolatrice intestinale dovuta all’abbondante presenza di pectine e mucillagini.

Delle ortiche possono essere utilizzate varie specie: in particolare, anche per la facilità di raccolta, Urtìca dioica, pianta erbacea perenne diffusa nelle regioni temperate del vecchio mondo e naturalizzata in America ed Australia; Urtica urens, pianta annuale di più modeste dimensioni, diffusa nelle regioni temperate dell’emisfero settentrionale;
Urtica pilulifera, annuale o biennale, tipica di rudereti e macerie e diffusa nell’Europa occidentale e nella regione mediterranea. Il genere Urtica appartiene alla famiglia delle Urticacee. La droga è data dalle foglie o dall’erba intera fiorita o, nelle specie perenni, anche dai rizomi, raccolti in autunno.

Nelle foglie è stato riscontrato un elevato contenuto di proteine, olio essenziale, acido formico e acetico, fitolo, carotinoidi, vitamine (acido pantotenico, C, 62, K, acido folico), tannino, cere e mucillagini. Anticamente l’ortica era già nota non solo come pianta medicinale ma anche alimentare – quest’uso è tuttora in voga in alcune regioni italiane, come il Piemonte – e, le forme perenni e di maggior taglia, anche come piante tessili.

Da un punto di vista terapeutico l’ortica era usata esternamente per produrre le “urticazioni”, irritazioni cutanee estese ed atte, si riteneva, a risolvere stati comatosi e letargici; in alcune malattie infettive, come colera e tifo, e a scopo revulsivo.

In seguito le vennero riconosciute numerose altre proprietà: astringenti e antidiarroiche, efficaci nella cura delle enteriti (decotto), emostatiche (uso già noto dal ‘600), ematopoietiche, cardiotoniche e ipertensive, diuretiche e decloruranti, galattogene e, infine, ipoglicemizzanti. Sarebbe auspicabile una maggiore sperimentazione e utilizzazione dell’ortica che oggigiorno viene usata quasi esclusivamente per uso esterno nella preparazione di lozioni antiseborroiche ed antiforfora.

Il mirtillo nero

(Vaccinium myrtillus) è un piccolissimo arbusto caducifoglio diffuso nelle zone temperate dell’emisfero settentrionale. Nel nostro paese è reperibile nei boschi montani – castagneti, faggeti – e nelle praterie di vetta sulle Alpi e sull’Appennino settentrionale e centrale, fino al Monte Vettore. Appartiene alla famiglia delle Ericacee. La droga è data dalle foglie e dai frutti. Contengono tannino, zuccheri, pectine, svariati acidi organici (citrico, malico, succinico, ossalico), antociani (mirtilline a e b).

I frutti del mirtillo, ben noti anche a scopo alimentare, sono dotati di proprietà toniche, astringenti e antisettiche e sono indicati in casi di diarrea, come antiemorroidari, per irrigazioni della mucosa nasale, per la cura di forme piodermitiche; le foglie contengono principi ipoglicemizzanti, antireumatici e antiuricemici.

Galega Anice stellato Pinocchio

La galega (Galega officinalis), appartenente alla famiglia delle Leguminose, è una pianta erbacea perenne di grande taglia diffusa nell’Europa centro-meridionale e nell’Asia occidentale. Nel nostro paese è abbastanza comune nei luoghi erbosi – prode di fossati, scarpate -specialmente se umidi.

La droga, data dall’erba intera, contiene l’alcaloide galegina, acido ascorbico, arginina, guanidina e nei semi anche galuteolina. L’azione galattogena della galega, già adombrata nel nome scientifico datole da Linneo, deve essere evidentemente nota da maggior tempo di quanto non ammettano alcuni testi che ne farebbero risalire la scoperta al secolo scorso.

Questa azione, tuttavia, è ritenuta abbastanza generica e comune del resto ad altre Leguminose, e non sempre viene confermata anche se non si può escludere un’azione favorevole sulla circolazione sanguigna della ghiandola mammaria che rende anche ragione dello sviluppo del seno indotto dall’uso della galega. È dotata inoltre di proprietà ipoglicemizzanti.

L’anice stellato, o badiana della Cina (lllicium verum) è un albero di una decina di metri originano della Cina meridionale e dell’Indocina dove è anche coltivato; appartiene alla famiglia delle Magnoliacee. La droga è data dai frutti – Anisi stellati fructus – foggiati caratteristicamente a stella e costituiti da un numero variabile, intorno all’otto, di follicoli contenenti ciascuno un seme.

I frutti contengono olio essenziale costituito soprattutto da numerosi terpeni, anetolo e altri alcoli, e inoltre grassi, resine, tannino e saponine. Le applicazioni terapeutiche dell’anice stellato sono molteplici. Si usa ampiamente in liquoreria (liquori dolci tipo sambuca o anisetta), come correttivo nella tecnica galenica, come carminativo, stomachico, stimolante della peristalsi, antispasmodico per stomaco e intestino e espettorante, mentre nella medicina popolare è anche usato come galattogeno.

Il finocchio

(Foeniculum officinale, o Foeniculum vulgarè) è una pianta erbacea] di grossa taglia, assai polimorfa, ampiamente diffusa nella regione mediterranea e in Europa, e anche estesamente coltivata come verdura. Nel ambito si possono annoverare la varietà capillaceum (finocchio selvatico), perenne, presente nella penisola e nelle isole dell’Istria (incolti erbosi, scarpate, bordi delle vie); le forme annue sativum, coltivato per gli acheni aromatici e dulce, coltivato come verdura per le grosse guaine fogliari carnose eduli.

La varietà piperitum, a distribuzione mediterranea, perenne, con frutti a sapore acre e sgradevole, è da taluno ritenuta buona specie a parte. Del finocchio si usano le radici, dotate di proprietà diuretiche, e i frutti comunemente ed impropriamente detti semi – foeniad fructus – che contengono olio essenziale ricco soprattutto di anetolo e di numerosi altri alcoli, terpeni, aldeidi.

I frutti del finocchio – oltre che in liquoreria e in pasticceria e ai vati usi di cucina come aromatizzanti di fichi secchi, salumi, antipasti – sono dotati di numerose proprietà: stimolanti della digestione, carminative, pare emmenagoghe, batteriostatiche ed eccitanti della secrezione salivare e lattea. La radice del finocchio, inoltre, si usa come diuretico.

Noce Consolida maggiore Camomilla romana Occhio di bue

Proprietà astringenti e che facilitano la cicatrizzazione di ferite possiede il noce (Juglans regia), pianta arborea di gran lunga più rinomata in campo alimentare e in quello industriale del legno. Originario probabilmente dell’Asia occidentale, il noce è stato diffuso rapidamente per coltura in quasi tutte le regioni temperate del globo. In farmacologia vengono usate le foglie che, raccolte all’inizio dell’estate e private della rachide, vanno fatte essiccare molto rapidamente all’ombra in modo che non anneriscano.

Esse contengono tannino, un olio essenziale, vitamina C e juglone. una sostanza con proprietà purgative. Estratti o infusi di noce, grazie alle loro virtù astringenti, risultano efficaci in persone linfatiche 0 affette da scrofolosi. Lavature o irrigazioni nasali, uretrali, vaginali e del cavo orale combattono eritemi e fenomeni dermopatici di varia natura.

La consolida maggiore

(Symphytum officinale), una borraginacea molto frequente nei luoghi erbosi dal mare alla mezza montagna, è pianta il cui impiego officinale risale ai greci e ai romani. La prova è data dal nome di significato pressoché uguale nelle due lingue (symphyton, cioè tengo insieme, consolido) dal quale derivano l’italiano e il francese consolida. In effetti gli antichi attribuivano a questa specie capacità di arrestare gli sputi sanguigni o altri fenomeni legati a malattie bronchiali e polmonari.

Tale fama, accompagnata da quella che esaltava la consolida come pianta capace di cicatrizzare ferite e ulcere, di arrestare metrorragie e emorragie, di ridurre emorroidi, ci è confermata da Dioscoride e Galene per quel che riguarda l’antichità e da numerosi botanici erboristi per il medioevo.
La consolida cadde poi nell’oblio e solo recentemente le furono attribuite tutte quelle virtù terapeutiche per cui andava fiera in passato.

I principi attivi, contenuti nel rizoma, sono dati dall’allantoina, presente in quantità inferiore all’I%, da mucillagini e gomma, da tannino, da sostanze resinose e da poco olio essenziale. Le proprietà cicatrizzanti e astringenti tipiche della pianta sono dovute all’effetto combinato dell’allantoina, delle sostanze tanniche e delle mucillagini. Mediante applicazione di cataplasmi a base di radice schiacciata o grattugiata trovano sollievo pazienti afflitti da piaghe, ulcerazioni, ragadi, emorroidi, o colpiti da fratture in via di consolidamento.

Un’attività farmacologica molto complessa è attribuita alla camomilla romana (Anthemis nobilis), una composita originaria dell’Europa occidentale e largamente coltivata anche nelle nostre regioni. Oltre a possedere proprietà amaro-toniche e antispasmodiche, è in grado di favorire il flusso mestruale e di agire come astringente, cicatrizzante e antiflogistico.

I capolini e i fiori staccati contengono azulene, una sostanza, anche se non del tutto accertato, che agirebbe in tal senso.
Proprietà del tutto simili si possono ritrovare in Anthemis tinctoria, l’occhio di bue, composita dai capolini gialli che viene talora usata quale succedaneo della camomilla romana.

Betonica Mirto Calendola

Per indicare una persona invadente e che sa tutto di tutti si ricorre talora alla frase: « è come l’erba betonica » o « è come la betonica »,
È assai chiaro il riferimento alla betonica (Stachys officinali*), labiata abbastanza comune, ma non così frequente e tanto appariscente da meritarsi un simile accostamento. La droga è data praticamente dall’intera pianta, anche se generalmente in erboristeria vengono usate le foglie.

Esse contengono alcaloidi, tannino, sostanze amare, gomma, resine, un olio essenziale e altri principi che esercitano azione tonica, aperitiva, carminativa, cioè che promuove l’eliminazione dei gas intestinali, cicatrizzante e astringente. Infusi, polveri e tinture vengono preparate per curare il catarro, la flatulenza, le affezioni dell’apparato urinario. Per uso esterno la betonica viene impiegata per cicatrizzare piaghe ed ulcere varicose.

Il mirto (Myrtus communi*) porta con sé una lunga tradizione. Sicuramente già conosciuto dagli egiziani e utilizzato dagli ebrei in particolari cerimonie, il mirto godette grande notorietà presso greci e romani. Gli eroi, dopo il trionfo, venivano incoronati con serti di mirto e le giovani spose portavano piccole corone di questo arbusto considerato simbolo della bellezza, dell’amore e della verginità. Per quanto miti, tradizioni e letteratura si siano occupati ampiamente del mirto, dal punto di vista farmacologico i suoi principi attivi sono conosciuti da non più di due secoli.

La droga è costituita dalle foglie e secondariamente dai frutti: essi contengono un principio amaro, sostanze resinose, una buona quantità di tannino e un olio essenziale tra i cui componenti ricordiamo il mirtolo e il mirtenolo. La presenza del tannino garantisce proprietà astringenti, mentre l’olio essenziale svolge azioni antisettiche e emostatiche oltre che stimolanti la digestione.

Decotti e sciroppi a base di mirto vengono impiegati per curare bronchiti e affezioni respiratorie, nonché nei disturbi emorroidali. Per uso esterno viene preparato un decotto la cui efficacia è apprezzabile per curare piaghe e affezioni cutanee.
È chiaramente di origine latina il nome di Calendula officinalis la calendola o fiorrancio, cioè fiore di colore aranciato.

L’etimologia ci riconduce al termine calendae con il quale i romani indicavano il primo giorno di ogni mese. Ben azzeccato è il nome di questa pianta, perché tra le numerose proprietà medicinali quella emmenagoga, cioè che promuove le mestruazioni, sembra essere la più rilevante, e ben si sa che il ciclo mestruale ha periodicità pressoché mensile, come del resto quasi mensilmente fiorisce la calendola. Di questa composita, che cresce nei luoghi erbosi coltivati dal mare all’orizzonte submontano, in farmacologia sono impiegate le foglie e i fiori che vengono fatti essiccare al sole.

Essi contengono un olio essenziale, una sostanza amara la cui composizione chimica non è stata ancora chiarita, una sostanza colorante, vitamina C, saponine, acido malico e altro. Farmacologicamente la calendola agisce come antispasmodico, colagogo, emmenagogo nei casi di amenorrea e dismenorrea, ed è anche un buon cicatrizzante. L’uso di tintura o dell’estratto di calendola una settimana prima dell’inizio del flusso mestruale risulta assai efficace come regolatore e analgesico.

Bardana Betulla Linaiola

La bardana (Arctium lappa) è una delle piante di più vecchio uso nella medicina popolare, mentre in campo strettamente medico un certo scetticismo ha sempre aleggiato sulle sue effettive proprietà farmacologiche. Di questa composita viene impiegata la radice che va raccolta nell’autunno del primo anno: è carnosa, cilindrica, piuttosto fragile, di sapore dapprima dolciastro e quindi tendente all’amarognolo.

Allo stato fresco si è dimostrata più attiva, ciò nonostante si può conservare per un tempo piuttosto limitato dopo averla ben essiccata a 30-35 “C. I principi attivi in essa contenuti fanno della bardana una pianta ad azione depurativa del sangue, con proprietà diuretiche, diaforetiche, colagoghe e ipoglicemizzanti.

Dove attualmente Arctium lappa trova maggior credito è nel trattamento della foruncolosi, oltre che per applicazioni esterne per combattere seborrea, eczemi ed acne. Infatti fin dall’inizio del secolo, e poi successivamente confermata, venne messa in risalto un’azione antibiòtica su alcune specie di stafilococco. I risultati nei casi di foruncolosi, è bene dirlo, si ottengono dopo un uso piuttosto prolungato di prodotti ricavati da radice di bardana, in genere l’estratto fluido, ed in dosi relativamente elevate.

La betulla

(Betula alba) appartiene ad un genere, Betula appunto, che comprende una cinquantina di specie diffuse perlopiù nelle regioni fredde e temperate fredde dell’emisfero boreale ed in particolar modo in quella dell’Asia orientale e dell’America boreale. Betula alba ha nella tundra
siberiana e nelle lande nordiche il suo habitat naturale, tuttavia in piccoli popolamenti è possibile incontrarla anche sulle Alpi e sugli Appennini.

Generalmente della betulla si apprezzano le qualità del legno, elastico e di discreta durezza, utilizzato per far ruote, timoni, cerchi per botti e a livello artigianale per costruire cucchiai, forchette, piatti, oggetti leggeri e solidi nello stesso tempo. Ma alla stessa pianta vengono attribuite proprietà farmacologiche i cui principi attivi sono presenti nelle foglie e nella corteccia.

Le prime, raccolte in primavera, hanno sapore amarognolo e sono leggermente aromatiche. Esercitano, per mezzo dei loro preparati, un’energica azione diuretica, un’attività coleretica e antisettica su alcuni batteri e vengono impiegate in particolari casi in cui sia necessario ridurre stati edematosi. Invece mediante distillazione secca della corteccia si ricava un catrame, indicato usualmente come “olio di betulla”, il cui impiego è particolarmente efficace per curare affezioni croniche della cute.

Ricorderemo ancora che l’uso del carbone, ottenuto dal legno e betulla e finemente polverizzato, può essere proficuo nei casi di dispepsie a livello gastro-intestinale spesso rese manifeste da fenomeni di meteorismo. Il suo potere assorbente è infatti alquanto elevato.
La presenza nelle foglie e nei fiori della linaiola (Linana vulgarìs) di numerosi glucosidi e di alcuni acidi organici offre anche a questa
pianta la possibilità di inserirsi tra quelle i cui preparati sono raccomanda nei disturbi delle vie urinarie. Contemporaneamente con foglie e fiori vengono preparate pomate che pongono rimedio ad alcuni casi di foruncolosi, di fistole e di stati emorroidari.

Fior di stecco Veratro bianco Cicuta

Daphne mezereum è il fior di stecco, una timeleacea a diffusione eurasiatica. Il nome italiano mette in evidenza che sulla pianta sul finire dell’inverno compaiono i fiori prima delle foglie. Più interessante è l’etimologia latina, un miscuglio di greco e di arabo, di mitologia e di presagi funesti: Daphne è la fanciulla che inseguita da Apollo si trasforma in alloro, mezereum è termine arabo che significa “che uccide”, con allusione alla velenosità della pianta.

Un tempo essa godeva fama di specie medicinale, e come tale ne parlano Galene, Teofrasto, Dioscoride. Ma già Pier Andrea Mattioli nel XVI secolo mette in guardia i suoi contemporanei sulla tossicità di Daphne, che attualmente non viene più usata per uso interno – come depurativo e antireumatico – mentre esternamente viene usata con molta circospezione e sotto controllo medico.

La droga è costituita dalla corteccia raccolta in lunghe strisce in autunno, o secondo alcuni autori in primavera. Essa, contenendo una sostanza resinosa acre e irritante, per uso esterno si comporta da energico vescicatorio, mentre un tempo dalla stessa veniva preparata una polvere che agiva da potente starnutatorio. Ricordiamo infine che i piccoli frutti, drupe scarlatte, per quanto belli e invitanti, vanno esclusivamente ammirati: il loro sapore è bruciante e l’ingestione di una decina di essi provoca un avvelenamento spesso mortale.

Il veratro bianco

(Veratrum album), indicato in alcuni testi come elleboro bianco, è una liliacea velenosa dell’Eurasia temperata che non ha niente a che vedere con il vero elleboro, ranuncolacea dell’orizzonte submontano. Veratrum in latino vuoi dire “veramente nero”, con evidente riferimento al rizoma, che è la parte della pianta ricca di principi attivi e che costituisce la droga.

Raccolto in autunno, tagliato a pezzi e seccato, il rizoma contiene un buon numero di alcaloidi, tra cui la jervina, la rubijervina, la protoveratrina, un glucoside amaro, zuccheri, grassi, resine.
Il veratro bianco agisce sul sistema cardiovascolare e respiratorio, sull’apparato renale, sulla muscolatura scheletrica e su quella liscia, sul sistema nervoso e sulla regolazione termica. In sede locale – cute, mucose – si comporta come revulsivo, anestetico e buon starnutatorio.

Non ha bisogno di presentazione la cicuta (Conium maculatum), un’ombrellifera del vecchio mondo, se non altro perché è noto che i greci con i suoi frutti preparavano il veleno per i condannati a morte, il più illustre dei quali fu Socrate. Anticamente la cicuta veniva impiegata come antispasmodico, narcotico e antitetanico: numerosi casi di avvelenamento hanno in seguito consigliato di togliere questa pianta dalla farmacopea popolare.

La droga è costituita praticamente da tutta la pianta, in particolar modo dalle foglie e dai frutti. Solo con un costante controllo medico possono essere preparati per uso interno infusi, estratti fluidi e tinture per curare tosse asinina, nevralgie, tetano, asma, epilessia e tosse convulsa, nonché il parkinsonismo post-encefalico. Più comune l’uso esterno. dove vengono sfruttate le proprietà anestetiche e vescicatorie delle foglie con le quali si preparano cataplasmi, impiastri e pomate per nevralgie, ingorghi ghiandolari, ulcere scrofolose e per combattere l’herpes zoster.

Pervinca Erba cimicina

Le due piante a fianco raffigurate, e cioè la pervinca e l’erba cimicina, 0 cicuta rossa, un geranio selvatico che strofinato emana un odore disgustoso, appartengono a quel gruppo di vegetali stimati un tempo per le loro virtù terapeutiche e oggi inesorabilmente caduti nell’oblio.
L’etimologia del termine pervinca, o vinca secondo la grafia latina, è senza dubbio connessa con il verbo vincere: gli antichi, infatti, dicevano un gran bene di questa apocinacea capace di aggredire, debellare e quindi vincere le malattie.

Accanto a questa versione strettamente terapeutica ve n’è un’altra molto più poetica e legata alla bellezza del fiore che ogni anno, lottando e vincendo gli ultimi rigori invernali, orna con le vivaci corolle i luoghi selvatici ravvivando del caratteristico colore blu un ambiente ancora avaro di vita vegetale in cui prevale la triste impronta dell’inverno appena passato.

Non sono però i fiori dalla corolla a preflorazione contorta che interessano, o meglio interessavano, la farmacologia; i principi attivi, invero assai numerosi, la cui efficacia poteva riguardare parecchie parti dell’organismo, sono contenuti nelle foglie dalla forma ellittico-lanceolata, dalla consistenza piuttosto coriacea, dal colore verde scuro, dall’odore erbaceo e dal sapore amaro astringente.

Esse sono ricche di un glucoside amaro, astringente, di color giallo, che prende nome di vincina o vincosina, sono fornite di almeno tre alcaloidi – ricordiamo la vinina e la pubescina – e inoltre contengono una saponina e una buona quantità di sostanze pectiche etanniche. I preparati a base di foglie di pervinca hanno trovato impiego sia per uso esterno sia per via interna.

Doti di collutorio hanno le decozioni di pervinca nelle infiammazioni della bocca e delle prime vie orali: le virtù terapeutiche di questo liquido si possono osservare curando con impacchi superfici cutanee colpite da « esantemi umidi » (Negri). Ancor più numerose sono le proprierà delle foglie della pervinca tramite preparati da impiegare per via interna. Toniche e diuretiche, depurative e antiscorbutiche, hanno trovato applicazione nella cura di catarri cronici, nelle infiammazioni delle vie gastro-enteriche, nell’ematuria, nell’enterite e nella diarrea, nelle febbri intermittenti e perfino in casi di tisi.

C’è da aggiungere inoltre la convinzione popolare che i prodotti a base di pervinca possano in qualche modo interrompere la portata lattea.
Come si vede questa pianta godeva di una certa fama dovuta ai suoi “mille usi”; oggi non più. Proprietà antimitotichepossiede invece Vinca rosea, la pervinca rosea (vedi).

Accanto alla pervinca possiamo collocare per analogia molte specie del genere Geranìum che contengono press’a poco gli stessi principi attivi. Più di ogni altro forse interessa Geranium robertianum, l’erba cimicina, o cicuta rossa, propria di stazioni ombrose; la pianta fiorita contiene un principio amaro, chiamato geraniina, e inoltre resina, sostanze tanniche, acido ellagico e in buona percentuale un olio etereo. L’estratto fluido o l’infuso è un buon collutorio per stomatiti e per gargarismi nelle angine.

Inoltre con la decozione si possono preparare impacchi assai efficaci nelle contusioni: questo uso è di origine antichissima, dato che l’erba cimicina è stata sempre ritenuta un’ottima vulneraria.

Persicaria Achillea

Le varie entità note sotto il nome italiano di persicaria, o pepe d’acqua (Polygonum hydropiper, Polygonum lapatbifolium e Polygonum persicaria, ritenuta una sua varietà) non godono di uguale credito tra i vari autori. Alcuni infatti escludono espressamente dal novero delle forme utilizzabili Polygonum lapatbifolium e forme affini; per altri, invece, tutte queste specie hanno proprietà analoghe.

Si tratta di piante appartenenti alla famiglia delle Poligonacee, ad amplissima diffusione – quasi cosmopolita Polygonum lapathifolium; assai diffuso nelle regioni temperate dei due emisferi Polygonum hydropiper – molto comuni nel nostro paese nei luoghi umidi, scoline, bordi di fossati, greti di fiume e anche negli incolti e nei depositi di macerie. Della persicaria – nome attribuitole per la rassomiglianza della forma delle foglie con quelle del pesco – si usano le parti aeree o le sole foglie.

In particolare Polygonum hydropiper contiene flavonoli – iperina, quercitrina, rutina, quercetina, persicarina e altri ancora – e inoltre glucosidi, acidi organici, tannino, un olio etereo e altre sostanze. Le sue proprietà emostatiche, ad ampio spettro di azione in casi di emottisi, metrorragie, emorragie emorroidarie, erano ben note agli antichi medici per la paracelsiana teoria della segnatura – ma le grosse macchie porporine sono presenti soprattutto su Polygonum lapathifolium – ed è sorprendente rimarcare come la più fantastica e infondata delle teorie abbia avuto di tanto in tanto insospettate conferme alla prova delle più rigorose indagini cliniche.

Secondo alcuni autori tali proprietà sono dovute ai contenuti glucosidici, mentre Folio essenziale avrebbe proprietà ipotensive. I preparati di pepe d’acqua sono inoltre dotati di una leggera azione revulsiva, per cui vengono associati ad altri composti per preparare lozioni anticalvizie.

Achillea millefolium,

volgarmente detta achillea o millefoglie, è una pianta erbacea perenne appartenente alla famiglia delle Composite e diffusa in tutta l’Europa, l’Asia medio-occidentale, la Siberia, l’America settentrionale. Nel nostro paese è comunissima pressoché ad ogni quota, dal mare alla montagna, nei luoghi erbosi, scarpate, argini, incolti, prati. Rifiorisce ripetutamente durante l’anno specialmente se sottoposta a sfalcio. La droga è data dalle foglie caratteristicamente frastagliate e soprattutto dalle sommità fiorite. Contiene olio essenziale composto a sua volta da cineolo, limonene, tujone, borneolo, acidi organici – salicilico, formico, acetico, valerianico – eazuleni.

L’achillea è dotata di molteplici proprietà tra le quali la tradizione ci raccomanda quelle cicatrizzanti cutanee e antiemorragiche, alle quali deve il nome scientifico e volgare. La leggenda vuole infatti che il centauro Chitone, già guarito da una ferita ad un piede grazie all’applicazione di foglie di centaurea minore (vedi), curasse con Achillea millefolium le ferite di Achille.

Altre proprietà che caratterizzanol’achillea sono quelle coleretiche, tonico-stomachiche, antispasmodiche e, scoperte ultimamente, anche antibatteriche. Attualmente, tuttavia, l’achillea è usata quasi esclusivamente come amaro-aromatico e viene impiegata soprattutto in liquoreria.

Sigillo di Salomone Giglio Arnica

II sigillo di Salomone (Polygonatttm officinale)

è una gigliacea perenne diffusa in Europa e in Asia. Nel nostro paese si trova nei boschi collinari e montani ma talvolta – come nella Pianura Padana – anche al piano. È assai simile a Polygonatum multìflorum da noi anche più comune negli stessi ambienti. Possono però essere facilmente distinti considerando che il primo ha fusto angoloso ed il secondo liscio. Sono piante perenni rizomatose e fioriscono in primavera.

La droga è data dal rizoma e si ritiene che le due specie abbiano proprietà analoghe. In particolare il rizoma di Polygonatum officinale – attenzione però alle bacche violacee, emetiche, drastiche e velenose – è dotato di proprietà emetiche ed espettoranti, ma può essere più vantaggiosamente impiegato, per uso esterno, mediante l’applicazione di impacchi dell’infuso o semplicemente di rizomi freschi schiacciati per la cura di ecchimosi, contusioni e di dolori di origine artritica e reumatica.

Analoghe proprietà hanno anche i bulbi freschi del giglio, o giglio di Sant’Antonio (Lilìum candidimi), appartenente, ovviamente, alla famiglia delle Liliacee, originario dell’Asia occidentale ma capillarmente coltivato e talora sfuggito alla coltura. Si applicano i bulbi schiacciati – -i caratteristici bulbi squamati – per la cura di ecchimosi ma anche di piaghe, scottature e, in genere, di malattie della pelle. Per uso interno il giglio bianco, sotto forma di decotto, possiede numerose proprietà: diuretiche, antiuricemiche e anche emmenagoghe.

L’arnica (Arnica montana)

è una pianta erbacea perenne diffusa sulle montagne europee. Nel nostro paese si trova nei pascoli delle Alpi e qua e là sull’Appennino settentrionale. Appartiene alla famiglia delle Composite. La droga è data dalle foglie, dalle infiorescenze(capolini) e anche dai rizomi con radici. I capolini contengono olio essenziale. acidi organici, gli alcoli terpenici arnisterina e faradiolo, acido caffeico, sostanze coloranti di natura carotinoide come xantofille e zeaxantina.

Nei rizomi sono presenti ancora olio essenziale, acido caffeico, acidi organici e inoltre inulina e tannino. Il principale uso della tintura di arnica (anche se l’etimologia del suo nome generico richiama proprietà starnutatorie) è quello esterno come antiecchimotico, vulnerario, revulsivo. L’arnica è pianta velenosa: per questo non viene più usata nella medicina interna, ancorché fossero note alcune interessanti applicazioni come sedativo generale e cardiaco e, nella pratica ostetrica, come antisettico.

Agrimonia Aquilegia Iperico Terebinto

L’agrimonia, o eupatoria (Agrimonia eupatorio), della famiglia delle Rosacee, è una pianta erbacea perenne di modesta taglia assai diffusa in tutto l’emisfero settentrionale. Nel nostro paese è abbastanza comune nei boschi, tra le siepi, ai bordi delle strade, negli incolti erbosi.

La droga, generalmente data dall’erba intera fiorita, contiene olio essenziale, vari acidi organici, quercitrina, tannini. Tuttora usata nella medicina popolare di diversi paesi medio-europei, l’agrimonia trova impiego come coleretico e colagogo, nella cura delle gastriti, mentre per uso esterno, nella cura delle ulcere varicose, agisce come collutorio, risolvente, decongestionante e leggero anestetico.

Buoni risultati si sono ottenuti pure nella cura di congiuntiviti, asma bronchiale, riniti, faringiti e gengiviti. L’estratto inoltre ha mostrato notevoli proprietà terapeutiche in casi di orticaria e di altre sindromi allergiche.

L’aquilegia

(Aquilegia vulgaris), appartenente alla famiglia delle Ranuncolacee, è pianta diffusa in tutto l’emisfero settentrionale. Nel nostro paese è reperibile nei boschi montani e talora anche collinari. È una pianta erbacea perenne, a fiori bluastri, ma nelle forme coltivate anche rosei o bianchi. Poiché è velenosa, il suo uso è soprattutto esterno: così il succo fresco favorisce la cicatrizzazione di ulcere e piaghe, mentre l’infuso di foglie è usato per fare gargarismi e collutori.

L’iperico,

o pilatro (Hypericum perforatami, della famiglia delle Ipericacee, è una pianta erbacea perenne diffusa in Europa, Asia, Africa settentrionale e assai comune nel nostro paese nei luoghi aridi e soleggiati come bordi delle vie, macerie, muri, incolti, pascoli. Fiorisce, con fiori di una magnifica tonalità giallo-oro, dal maggio all’estate.

La droga è data dalle sommità fiorite, che contengono olio essenziale ricco di terpeni, un olio fisso, i composti flavonici quercetina, quercitrina, iperina e rutina, derivati diantronici e antranolici – ipericina ed altri – saponine, acidi organici, pectine.

L’iperico era noto per le sue proprietà medicamentose – oltre che magiche e rituali, donde un altro nome volgare, “cacciadiavoli” – già dall’antichità classica e veniva citato da Dioscoride, Galene, Plinio e poi da Pier Andrea Mattioli. Nella medicina popolare venne usato come balsamico e antiinfiammatorio sia internamente -bronchi, vie genito-urinarie – sia esternamente – emorroidi, ustioni, ulcerazioni, piaghe – e, anche se caduto in disuso, come cicatrizzante e batteriostatico. L’iperico gode di proprietà vasodilatatrici e ipotensive.

Proprietà balsamiche e espettoranti ha il terebinto (Pistacia terebinthus), diffuso nella regione mediterranea e presente nel nostro paese specialmente nell’Italia meridionale e insulare dove forma, insieme al lentis (Pistacia lentiscus), vaste distese di “macchia”. Incidendo la corteccia geme un liquido vischioso di odore balsamico che contiene un olio essenzi; ricco di terpeni e di resine, detto trementina di Chio, usato anche per fare unguenti e impiastri.

Favagello Ranuncoli Gemme di pioppo

II favagello, o celidonia minore (Ranunculus ftcaria, o Vicarìa ranunculoides) è una piccola pianta erbacea perenne, a fioritura primaverile assai precoce, appartenente alla famiglia delle Ranuncolacee. E assai diffuso in Europa, Asia occidentale, Africa settentrionale; nel nostro paese è abbastanza comune specialmente nei campi e negli incolti argillosi di pianura e di collina e, nelle regioni meridionali, anche in montagna.

È dotato di caraneristici tubercoli radicali sotterranei che ne garantiscono, ove è presente, una facile propagazione agamica. Si usa l’erba fresca, compresi i tuberetti. Contiene una saponina, detta ficarina, e acido ficarico ed è adoperata, sotto forma di pomate o supposte, alternandola con ippocastano e cipresso, nella cura di emorroidi e ragadi, delle quali questi preparati favoriscono la riduzione e la cicatrizzazione.

Numerosi altri ranuncoli, spesso assai diffusi nei prati, specialmente se umidi e pingui, e talune specie anche nei boschi, nelle acque, nei seminativi (come Ranunculus sceleratus, comune nei fossi e nei luoghi paludosi; Ranunculus arvensis, dei campi; Ranunculus repens, acer, bulbosus ecc. dei prati e delle prode erbose dei fossati) sono velenosi e nelle loro parti aeree contengono ranunculolo ad azione assai energica e usato in alcune particolari terapie che richiedono un’azione revulsiva molto violenta.

La presenza di ranuncoli rende il foraggio velenoso e poco appetito dal bestiame, ma con l’essiccamento si ha una riduzione sia della velenosità che del contenuto in principi acri. Si conoscono casi di avvelenamento a carico dell’uomo dovuti alla ingestione erronea di ranuncoli a scopo alimentare.
Queste forme di avvelenamento si curano con l’induzione del vomito, con lavande gastriche e con la somministrazione di analettici.

Il pioppo nero (Populus nigra), spesso spontaneo nei boschi umidi e lungo il greto dei fiumi e frequentemente coltivato specialmente nella sua varietà cipressina (var. italica) dotata di pregi ornamentali, è un albero di grossa taglia (fino a 20 metri) ma poco longevo.

Ancora meno lo sono i vari ibridi euroamericani, derivati appunto dall’ibridazione tra il nostrano nero e gli altri di importazione nordamericana (il canadese, il caroliniano, il monilifera, ecc.), dotati di grande rapidità di crescita e pertanto adatti (ed estesamente coltivati) nelle coltivazioni a rapido accrescimento assai diffuse nei terreni golenali lungo il Po ed in varie località della Pianura Padana, in particolare in Lomellina.

Appartengono con i congeneri Populus alba, il pioppo bianco, o gattice, o alberaccio, e Populus tremula, il tremolo, essi pure della nostra flora, alla famiglia delle Salicacee. Per usi terapeutici vengono utilizzate le gemme fogliari sia del pioppo nero che degli ibridi, che vanno raccolte alla fine dell’inverno prima che si schiudano.

Le gemme, vischiose per la presenza di una sostanza resinosa gialla o bruniccia, contengono sostanze coloranti (crisina e tectocrisina), i glucosidi salicina e populina, resine, tannino e olio essenziale e costituiscono il principale componente dell’unguento populeo usato nella cura di ragadi e emorroidi. Analogamente al salice bianco (vedi) le gemme e la scorza del pioppo nero hanno azione febbrifuga utile nelle affezioni della vescica e nei reumatismi.

Marrubio Castagno d’India Cipresso

Di origine antichissima è l’uso del marrubio (Marrubium vulgare), una labiata erbacea dei luoghi aridi sabbiosi e sassosi. I sacerdoti egiziani lo usavano largamente nei sacrifici alle divinità, mentre i greci, i romani e successivamente gli arabi ne intuirono le proprietà medicinali, balsamiche e espettoranti. In seguito, alle sue sommità fiorite vennero riconosciute doti amaro-toniche, antispasmodiche, antitermiche, eupeptiche, colagoghe e regolatrici del ritmo cardiaco, e capacità di curare alcune malattie della pelle.

Strade e viali, parchi e giardini godono d’estate della fresca ombra del castagno d’India da almeno duecento anni, anche se in realtà questa pianta, originaria dell’Asia occidentale, era entrata nel continente europeo dalla Persia ad opera dei turchi ancora nel XVI secolo. Francia ed Inghilterra sono state le nazioni che accolsero con maggior entusiasmo l’introduzione di quest’albero, che ben presto s’impose non solo per essere il più grande fra tutti quelli ornamentali da fiore, ma anche dimostrò col passare del tempo un’ottima resistenza e adattabilità climatiche alle quali si aggiungevano doti di rapida crescita su terreni di qualsiasi natura.

I principi attivi del castagno d’India – chiamato anche ippocastano (Aesculus hippocastanurrì) cioè albero che fornisce le castagne del cavallo, perché i suoi semi avrebbero effetti medicamentosi sugli equini afflitti da bolsaggine – sono contenuti nei semi e nella scorza dei giovani rami; agiscono con buoni risultati nei casi di alterazione circolatoria di diversa natura, come tromboflebiti e flebiti, emorroidi e diatesi emorragica, varici e varicocele.

I preparari a base di ippocastano, in modo particolare per la presenza di esculina, accelererebbero la circolazione venosa, quando questa fosse rallentata da qualche impedimento, aumentandone il flusso. La droga trova pure impiego nell’ipertrofia e nella congestione prostatica nonché nelle affezioni catarrali interessanti i polmoni e l’intestino, mentre per uso esterno è indicata nella gotta, nelle forme leggere di reumatismo e in alcune dermatiti.

Il cipresso (Cupressus sempervirem) è una delle specie più caratteristiche della regione mediterranea. Antichissima è l’usanza di delimitare con cipressi i cimiteri: spetta sicuramente a questa consuetudine se il cipresso attualmente si trova diffuso come pianta coltivata in particolari zone poste ai margini o ben oltre i confini naturali del suo areale.

Il cipresso è tra le piante più longeve, potendo raggiungere anche il limite massimo di tre migliaia di anni. E nello stesso tempo è una delle specie con proprietà medicinali di cui si abbiano notizie da qualche millennio. Era conosciuta per le sue doti presso gli assiri, i greci e i romani, mentre nel medioevo venivano sfruttate le sue capacità emostatiche, ben note anche oggi, nella cura delle emorroidi.

La parte della pianta che interessa da vicino la farmacologia è data dai coni, chiamati impropriamente anche “bacche di cipresso”. I principi attivi in essi contenuti agiscono come eccellenti vasocostrittori nelle affezioni del sistema venoso – emorroidi, varici, disturbi della menopausa – e come astringenti intestinali e stomachici.

Colchico Celidonia Pervinca rosea

II colchico (Colchicum autunnale) è una pianta erbacea perenne diffusa nell’Europa centrale e meridionale e nell’Africa settentrionale. Nel nostro paese è abbastanza comune nei luoghi erbosi, nei boschi, tra le siepi di pianura, di collina, di media montagna.

Fiorisce in settembre-ottobre, ma i frutti derivanti da questi fiori compaiono solo nell’estate successiva con le foglie di quell’annata. Appartiene alla famiglia delle Liliacee.

La droga è data dai tuberi e dai semi. I tuberi vanno raccolti in piena estate; i semi verso la fine di giugno o ai primi di luglio quando la cassula comincia ad aprirsi. I semi, in particolare, contengono J’aJcaJoide colchicina, numerose altre sostanze, lipidi e zuccheri.

I bulbi contengono acido chelidonico, asparagina, apigenina, abbondante amido, acido benzoico e acido salicilico. Le proprietà terapeutiche e velenose del colchico sono note da gran tempo. Nell’antichità tuttavia le sue applicazioni rimasero limitate all’uso esterno.

Il colchico esplica varie azioni farmacologiche. Localmente, applicato sia sulla cute che sulle mucose è assai irritante; sull’apparato digerente esplica azioni che aumentano le secrezioni salivare, gastrica e intestinale. È anche dotato di proprietà antiallergiche e antibatteriche ma l’interesse maggiore gli deriva dall’attività antimitotica (blocca cioè le divisioni cellulari) scoperta da un italiano, il Pernice, ancora nel lontano 1889. Da un punto di vista terapeutico viene usato nella cura della gotta, delle malattie allergiche e soprattutto come antitumorale.

La celidonia, o chelidonia (Chelidonium majus) è una pianta erbacea perenne diffusa in Europa, Asia, Africa settentrionale e abbastanza comune nel nostro paese in luoghi ombreggiati presso le case, sui vecchi muri, sulle macerie. Appartiene alla famiglia delle Papaveracee.

La droga è data dall’erba intera fiorita (comprese le radici) o dal latice che sgorga dai fusti recisi. Contiene alcaloidi – chelidonina, sanguinarina, cheleritrina e altri – acido ascorbico, resine, olio essenziale, una saponina. La celidonia esplica azione batteriostatica, antiblastica e spasmolitica nella cura di malattie del fegato e delle vie biliari. Nella medicina popolare il latice fresco veniva usato come caustico per “bruciare” porri e verruche.

La pervinca rosea, o del Madagascar (Catharanthus roseus, o Vinca rosea} è una pianta originaria appunto del Madagascar ormai diffusa in tutte le regioni tropicali e coltivata talvolta, a scopo ornamentale, anche nel nostro paese. È un piccolo suffrutice sempreverde (da noi però coltivato alla stregua di annuale) a foglie lucide ed ovali.

Appartiene alla famiglia delle Apocinacee, come la pervinca, o Vinca minar (vedi). Contiene svariati alcaloidi, alcuni comuni anche alle varie specie del genere Rauwolfia – come l’ajmalina, la reserpina, la serpentina, la yohimbina – e numerosi altri propri del genere Catharanthus come la catarantina, la vindolina, la perivina, la vincamicina.

Contiene inoltre vari acidi organici, olio essenziale, tannino e molte altre sostanze. Nella moderna sperimentazione viene posta una particolare attenzione ad uno dei suoi principi attivi, la vincaleucoblastina che parrebbe dotata di notevole efficacia nella terapia di numerose forme di neoplasmi.

Piretro Tuja Quassia

Gli insetticidi a base di piretro (Chrysanthemum ànerariaefolium), una composita originaria della Dalmazia, sono innocui per gli animali domestici e per l’uomo, ma non per gli insetti – ditteri e imenotteri perlopiù – che le nostre case …ospitano più o meno numerosi secondo la stagione. Questo perché i principi attivi – contenuti nella droga che si ricava dai capolini di questa pianta – ai quali complessivamente si da il nome di piretrine, sono dotati di un elevato grado di tossicità nei confronti di insetti e vermi, cioè esseri a sangue freddo, mentre risultano pressoché innocui per i mammiferi.

La polvere di piretro, tuttavia, non trova largo impiego; di solito si preparano estratti della droga che generalmente vengono disciolti in petrolio e poi venduti sotto forma di insetticidi nebulizzati fino a poco tempo fa con l’additivo del famigerato DDT. Anche per risolvere alcuni problemi di patologia vegetale vengono usati insetticidi a base di piretro. Oltre all’uso esterno le piretrine hanno dato ottimi risultati anche come antielmintici nei confronti di ascaridi e oxiuridi, tenie e tricocefali. I parassiti con il trattamento di sostanze piretriche in un primo tempo sono soggetti a una forma di eccitazione che li porta a staccarsi dalle pareti dell’intestino, in seguito vengono paralizzati fino a morire.

Anche la tuja (Thuya occidentalis), pur non avendo l’importanza della specie precedente, può essere inclusa tra le piante con proprietà antielmintiche e insetticide. Questa bella cupressacea, originaria del Canada e introdotta in Francia durante il regno di Francesco I poco più di quattro secoli fa, è di gran lunga più conosciuta come pianta ornamentale per parchi e giardini.

I principi attivi sono contenuti nei rametti con foglie dai quali si ricava un olio essenziale i cui componenti principali sono il fenone e il tujone, che tra l’altro hanno il potere di stimolare il muscolo cardiaco alla stessa stregua della canfora. Nella tuja inoltre, secondo studi biochimici d’una ventina d’anni fa, sono state rinvenute dosi piuttosto elevate di vitamina C, concorrendo così ad affermare questa cupressacea come una pianta ad elevato potere antiscorbutico.

Con il nome di quassia, o quassie, si è soliti indicare due droghe che si ricavano da due arbusti o piccoli alberi dell’America tropicale, Quassia amara e Picrasma excelsa, appartenenti alla stessa famiglia, quella delle Simarubacee, ma a tribù diverse.

La quassia ha alle sue spalle una lunga storia, legata a credenze e leggende addirittura precolombiane, tanto era in voga presso gli indigeni dell’America tropicale. In questa piani essi avevano trovato proprietà febbrifughe, smentite tuttavia quando venne importata in Europa, virtù amaro-toniche e eupeptiche tuttora valide e capaci di accrescere notevolmente le secrezioni gastriche, intestinali, epatiche e renali.

La quassina, il principio attivo che si ricava legno della pianta, va comunque somministrata in piccole dosi, altrimenti risulta tossica. Anzi proprio per essere tale per artropodi e vermi, viene utilizzata nei casi di ossiurosi, mediante infuso per mezzo di clistere.
Nello stesso tempo la quassina si è dimostrata assai efficace per combattere i “pidocchi” delle piante.

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